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Cambiamento Climatico

Le conseguenze socio-economiche del cambiamento climatico per l’Italia

Estratto dal libro "Ecoshock - Come cambiare il destino dell’Italia al centro della crisi climatica" di Giuseppe Caporale, edito da Rubbettino

 

L’estrema fragilità dell’Italia è confermata anche da un’analisi compiuta per gli investitori dalla società XCI (The Cross Dependency Initiative) sulle regioni dell’Unione europea maggiormente esposte agli eventi meteorologici estremi e al cambiamento climatico da qui al 2050. Lo studio inserisce la Lombardia, seconda economia regionale dell’UE (366 miliardi) nel 2020, nella top 10. In dettaglio abbiamo Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna che occupano il quarto, quinto e ottavo posto. Quello della XDI, tra i leader mondiali nell’analisi del rischio climatico fisico, è il primo studio globale del patrimonio immobiliare e del territorio condotto in rapporto al clima. Nel nostro continente, i maggiori fattori di rischio sono le inondazioni fluviali e superficiali o le inondazioni combinate con l’inondazione costiera, fra gli otto pericoli climatici estremi insieme con caldo estremo, incendi boschivi, movimenti del suolo (legati alla siccità), vento estremo e congelamento. È sulla base di questi otto fattori che XDI ha calcolato il rischio climatico interno lordo, elaborando un dataset – Gross Domestic Climate Risk – che mette a confronto oltre 2600 regioni (o altre entità substatali) di tutto il mondo in base alle proiezioni dei danni agli edifici e alle proprietà causati da eventi estremi e mette in luce la vulnerabilità dei centri economici. Il confronto del rischio fisico in relazione al clima per il 2050 in Europa ha rilevato che la Bassa Sassonia in Germania, le Fiandre in Belgio, Krasnodar in Russia e il Veneto e la Lombardia in Italia sono le regioni europee ai primi posti in classifica e rientrano nella top 100 delle regioni più a rischio del mondo.

Scenari futuri: ecosistemi e settori economici

La maggior parte dei modelli climatici utilizzati proiettano i possibili scenari futuri in un periodo tra il 2036 e il 2065, centrandosi sul 2050, e utilizzando l’intervallo 1981-2010 come termine di riferimento per valutare l’entità delle oscillazioni.

Nel Piano Nazionale di Adattamento ai Cambiamenti Climatici è naturalmente concesso ampio spazio ai risultati delle simulazioni climatiche, che riescono a delineare soprattutto il verificarsi di possibili situazioni socio-economiche intorno ai due valori più importanti: quello medio risultante dall’applicazione dei vari modelli, chiamato ensemble mean, ritenuto il più affidabile, ma anche il valore di dispersione dei singoli modelli stessi intorno al valore medio (incertezza).

Il dato per noi allarmante è che tutti i modelli, sia che si ipotizzi uno scenario Business as usual (il peggiore, con una crescita delle emissioni secondo i ritmi attuali e senza rallentamenti, che porterebbe nel 2100 a una concentrazione atmosferica di CO2 triplicata o quadruplicata rispetto ai livelli preindustriali), uno scenario di Forte mitigazione (con la messa in atto di alcune iniziative per controllare le emissioni, tali da portare entro il 2070 le emissioni di CO2 al di sotto dei livelli attuali – 400 ppm – e la concentrazione atmosferica a stabilizzarsi, entro la fine del secolo, a circa il doppio dei livelli preindustriali) o uno scenario di Mitigazione aggressiva (con emissioni dimezzate entro il 2050 grazie a strategie di mitigazione assai decise, per cui le emissioni di gas serra iniziano a diminuire già dopo circa un decennio e si avvicinano allo zero più o meno in 60 anni a partire da oggi: uno scenario che renderebbe improbabile un aumento della temperatura media globale superiore ai 2°C rispetto ai livelli preindustriali), rivelano che i valori di eventuale aumento medio di temperatura in Italia sono sensibilmente superiori rispetto ai valori di aumento medio prevedibili a livello mondiale.

Nel vagliare l’entità degli impatti del cambiamento climatico sul nostro territorio, il PNACC articola la sua analisi in base ai diversi ecosistemi (e alle relative dimensioni socio-economiche). Tra questi, il primo a essere attenzionato è quello montano.

La criosfera, ossia l’insieme di neve, ghiacciai e permafrost, subisce in modo particolarmente duro gli effetti dai cambiamenti climatici: negli ultimi decenni la durata e lo spessore della neve si sono fortemente ridotti così come lo stock idrico nivale che si accumula ogni anno a fine inverno. I ghiacciai, in sostanza, hanno già perso dal 30% al 40% del loro volume complessivo. Tra i vari casi di studio, impressionante è quello del ghiacciaio del Careser, nel gruppo dell’Ortles-Cevedale (Trentino-Alto Adige): la serie storica dei monitoraggi è iniziata nel 1967 e trattandosi di un ghiacciaio di dimensioni maggiori rispetto agli altri la sua drastica riduzione risulta ancor più traumatica. In occasione dell’ultimo sopralluogo, a giugno 2022, è stato riscontrato uno stato di fusione della neve che ci si aspetterebbe a fine agosto, segno che la situazione è in rapido peggioramento. Quando si parla di ghiacciai, bisogna tener presente l’estrema articolazione dei fenomeni. Si assiste a volte a un consistente aumento della portata dei torrenti di montagna, un fenomeno chiamato peak water, che sembrerebbe in controtendenza, ma del tutto temporaneo e dovuto alla fusione glaciale, destinato così a esaurirsi quando il ghiacciaio si estingue o si ritira a quote talmente elevate da non poter più fondere: una condizione che è già stata raggiunta nella maggior parte dei bacini glaciali italiani. Nel frattempo la temperatura del permafrost sta aumentando in modo significativo in tutti i siti di misura alpini, così come aumenta lo spessore dello strato di terreno o roccia che annualmente viene scongelato. Tendenze che continueranno nei prossimi decenni. Le stime ci dicono che la durata della copertura nevosa nei fondo-valle e sui versanti meridionali fino a 2000 metri si ridurrà di 4 o 5 settimane, e di 2 o 3 settimane a 2500 metri. La crisi idrica che già stiamo vivendo ne verrà ulteriormente influenzata: il contributo della fusione di neve e ghiaccio al deflusso totale dei fiumi italiani può variare dal 5% nelle regioni meridionali al 50-60% del bacino padano, e la riduzione di neve e ghiaccio comprometterà questo fondamentale ruolo tampone andando a incrementare la precarietà delle nostre risorse idriche, specialmente nei mesi estivi.

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