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L’Italia prenda esempio dalla Norvegia su gas e petrolio. Parla Bessi

Conversazione con Gianni Bessi, consigliere regionale dell’Emilia-Romagna del PD e autore di alcune pubblicazioni sulla materia tra cui “Gas naturale. L’energia di domani”   La Corte suprema della Norvegia poco prima di Natale ha respinto il ricorso presentato da alcune associazioni ambientaliste per fermare 10 concessioni di estrazione accordate dal governo nel 2015-2016. Nello stesso…

 

La Corte suprema della Norvegia poco prima di Natale ha respinto il ricorso presentato da alcune associazioni ambientaliste per fermare 10 concessioni di estrazione accordate dal governo nel 2015-2016. Nello stesso momento il ministro dello Sviluppo economico Patuanelli ha minacciato di mettere una pietra tombale sulla produzione di idrocarburi italiana. Su questi temi abbiamo fatto una chiacchierata con il consigliere regionale dell’Emilia-Romagna del Pd Gianni Bessi, blogger di Start Magazine e autore di alcune pubblicazioni sulla materia tra cui “Gas naturale. L’energia di domani”, edito da Innovative Publishing. Bessi è nato, vive ed è stato eletto con migliaia di preferenze a Ravenna dove opera uno dei distretti energetico e offshore più importanti del Mediterraneo.

Consigliere, cosa pensa della sentenza della suprema Corte della Norvegia?

Beh parafrasando Bertolt Brecht possiamo dire che “…esiste, dunque, un giudice a Oslo”.

La Norvegia, nazione all’avanguardia nelle politiche ambientali continua a sfruttare nel mare di Barents, oltre il circolo polare artico, uno dei più vasti giacimenti di gas del mondo, estraendo ogni giorno migliaia di metri cubi di gas naturale da una ventina di pozzi. E in Italia…

I pozzi li chiudiamo. Invece l’impegno per utilizzare il gas naturale italiano credo dovrebbe essere un obiettivo di tutti: basterebbe un motivo solo per sostenerlo, cioè che ci conviene. Consumiamo molta energia, come ogni paese industriale avanzato, e per il suo approvvigionamento siamo dipendenti dall’estero: paghiamo una bolletta energetica pesantissima, e quando dico paghiamo sottintendo ogni cittadino italiano. Utilizzare gas italiano a km zero quindi, è interesse nazionale. E non sto difendendo i petrolieri, le ricche e crudeli multinazionali, ma le migliaia di lavoratori italiani che sono impiegati direttamente nel settore o nell’indotto. Chi invece difende i petrolieri, come i russi che ci vendono il 40% degli oltre 70 miliardi di mc/anno di gas che consumiamo, sono quelli che vogliono bannare lo sfruttamento dei nostri giacimenti di gas naturale, appoggiandosi alla retorica ecologista che produce solo più importazioni via gasdotto.

Un settore strategico?

Basta qualche numero a dimostrarlo: le attività di upstream di Eni, cioè quelle a monte della commercializzazione delle risorse energetiche, in Italia danno lavoro a circa 5mila persone sugli oltre 20 mila dipendenti del cane a sei zampe. Senza contare l’indotto della manifattura e dei servizi accessori i più colpiti da questa situazione. La produzione di idrocarburi Eni in Italia, sono i dati 2018, è il 7% di quella totale dell’azienda con relativo fatturato. La si ottiene grazie ai giacimenti, in gran parte gas naturale, dell’Adriatico, della Basilicata e della Sicilia. Eni è l’azienda Paese dove lo Stato ha il 30% del suo capitale. È quindi una follia, dopo i danni della moratoria, pensare ora a un blocco totale per un Paese che importa quasi il 90% del gas naturale che consuma per riscaldare le case, per cucinare e per produrre l’elettricità che garantisce la produzione industriale.

Tornando alla Norvegia con l’inaugurazione dello scorso maggio del Technology Center Mongstad, vicino a Bergen, ha promosso una joint venture da un miliardo di dollari che vede come protagonisti Equinor ASA  (la compagnia petroliofera statale norvegese), Shell (anglo-olandese) e Sasol (sudafricana) e lo stesso Stato norvegese. Sperimenterà per la prima volta su scala industriale i due principali metodi di stoccaggio dell’anidride carbonica dai fumi di scarico di una raffineria e di una centrale elettrica a gas. CO2 e ambiente: una sfida da economia circolare…

Non solo la Norvegia, ma anche il Regno Unito è su questa linea. Poi se ne parla in Olanda e presto partiranno gli Stati Uniti. Sarà una vera rivoluzione nei servizi industriali. E gli Stati partecipano direttamente… e secondo me fanno bene.

E l’Italia?

Noi abbiamo un progetto di stoccaggio della CO2, sul quale Eni è pronta a investire nel polo ravennate, che dovrebbe essere applaudito dai “virtuosi” dello sviluppo sostenibile. È in grado di produrre occupazione e ricchezza per il territorio come anche di valorizzazione ambientale. Cosa vogliamo di più? Non c’è nulla di più sostenibile che togliere di mezzo uno dei maggiori elementi inquinanti. Vogliamo sviluppare l’economia circolare? Lo stoccaggio di CO2 è economia circolare, perché interviene su quello che è il principale gas serra che le attività umane rilasciano nell’aria. E che comunque, va ricordato, è presente in natura comunque, perché è indispensabile al processo di fotosintesi delle piante.

L’economia circolare ha quindi bisogno di questo tipo di progetti?

Esatto. E Ravenna sarebbe naturalmente uno dei siti più adatti al mondo per un impianto di cattura e stoccaggio della Co2, grazie al know how generato dalle conoscenze che si sono sviluppate negli anni, la vicinanza tra le fonti di emissione della CO2 e i giacimenti esausti che ne consentono lo stoccaggio. Peccato che il progetto sia stato escluso da quelli per i quali il nostro paese intende utilizzare il Recovery plan. È solo l’ennesimo esempio di occasione persa, come anche il blocco alle attività di estrazione, con i 5 miliardi di investimento per raddoppiare la produzione di gas a km zero nell’Adriatico che sono stati congelati.

E l’impianto di Co2 sarebbe stata una grande opportunità di crescita per Ravenna.

Nei fatti promuovere a Ravenna questi progetti significherebbe produrre innovazione ed efficientamento alla decarbonizzazione per il bene del nostro Paese e dell’Europa. Significherebbe collocare Ravenna, l’Emilia-Romagna e l’Italia nella parte alta della catena del valore nella geografia economica globale. La sfida alla decarbonizzazione passa dai ‘pionieri del clima’ come è scritto nelle comunicazioni dell’Unione europea del green new deal. È il tempo delle scelte e della volontà di portarle fino in fondo.

Qual è la sfida che ci attende?

Come richiama il Green new deal europeo, il progresso tecnologico, il ruolo dell’industria e dell’efficienza economica sociale ambientale e culturale di tutto il sistema. Oggi siamo lontani dal traguardo di utilizzare solo energie pulite e non possiamo comportarci come se domani, grazie a un tocco di bacchetta magica, improvvisamente fosse possibile mandare avanti solo con le rinnovabili un mondo che non è mai stato così energivoro. Non è una questione teorica o ideologica, è una questione tecnologica. In questo scenario il prossimo Offshore Mediterranean Conference and Exhibition di Ravenna, che avrà al centro il tema del futuro della decarbonizzazione, del mix tra le diverse fonti con il ruolo dell’ingegneria e dell’industria dell’energia. Un’iniziativa che diventa un appuntamento strategico a livello mondiale. Devo fare i complimenti al presidente di OMC, l’Ing. Monica Spada e a tutto il suo team per il programma molto interessante. Speriamo che sia possibile farlo svolgere nel 2021.

Quando si parla di energia entra in campo anche il tema della sicurezza delle infrastrutture.

È da anni che i servizi d’intelligence dello Stato hanno segnalato che ci sono problemi per garantire la sicurezza delle nostre infrastrutture di approvvigionamento di fonti energetiche. È una segnalazione importante su un elemento cruciale della sicurezza del paese: la protezione delle infrastrutture è indispensabile per garantire la continuità dei flussi energetici verso il nostro Paese che, è utile ripeterlo, importa dall’estero la stragrande maggioranza delle risorse.

Cosa servirebbe all’Italia adesso per partecipare alla sfida del green deal?

Nei momenti in cui si contrae l’economia (e oggi il rischio non è solo una recessione ma una forte depressione economica) servono stimoli per farla ripartire. Ed è quello che, a parole, si propongono di fare un po’ tutti quanti, almeno finché non si arriva a dovere stringere sul “cosa fare e come farlo”. È facile fare proclami, ma annunciare cambiamenti strutturali senza prima essersi assicurate le risorse economiche e l’implementazione tecnologica per realizzarli, salvo poi fare mille distinguo quando arrivano: è ancora e sempre la stessa deformazione culturale e politica italiana. Si rischia un catalogo di buone intenzioni e scaricare sui cittadini costi insostenibili. È una politica ambientalista d’élite.

Una politica più lungimirante, quindi.

E che capisca come nel nostro caso si debba puntare su un mix energetico gas rinnovabili e sull’economia circolare. Sostenendo entrambe le partite con le risorse dei fondi messi a disposizione dell’Ue per contrastare il colpo all’economia subito a causa della pandemia. E con una volontà politica forte.

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