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Gabanelli Energia

Vi racconto le gabanellate sull’energia

Cosa non torna nei dati di Gabanelli sugli extraprofitti delle società energetiche. L'approfondimento di Carlo Stagnaro per Il Foglio.

La tassa sui cosiddetti extraprofitti delle società energetiche difficilmente raggiungerà gli 11 miliardi di gettito preventivati dal governo. È la tesi del Dataroom di Milena Gabanelli, pubblicato lunedì sul Corriere della sera e poi ripreso in serata al Tg de La7. La tesi è di per sé credibile, ma per ragioni assai diverse rispetto a quelle offerte da Gabanelli. L’articolo è infatti costellato di errori o imprecisioni che lo rendono non solo poco informativo, ma per certi versi addirittura fuorviante. In uno scambio su Twitter, Gabanelli ha invitato a “segnare in rosso e blu” quello che non torna. Proviamo a farlo.

Nel testo si trovano errori rossi, poco gravi, che hanno a che fare soprattutto con affermazioni troppo tranchant: per esempio, nella terza riga si dice che gli aumenti del prezzo di gas e petrolio erano “imprevedibili”. In realtà erano prevedibili, erano stati previsti e c’era chi aveva messo in guardia per tempo (si veda Alberto Clò fin dall’estate 2020). Sempre all’inizio dell’articolo, Gabanelli denuncia che gli operatori “gli acquisti li avevano fatti ben prima a un prezzo molto più basso”, dunque sarebbero nella condizione di lucrare sui mitologici extraprofitti. Se anche fosse così, prima o poi il magazzino finisce e i volumi acquistati ai prezzi di ieri (più bassi) dovranno essere rimpiazzati da quelli pagati ai prezzi di oggi. Quando il prezzo scenderà, i volumi acquistati oggi saranno rivenduti a un prezzo inferiore. Nulla di strano o sospetto. Inoltre, non tutti i volumi acquistati ieri sono ceduti oggi ai prezzi spot: molti sono commercializzati sulla base di contratti a prezzo fisso, che proteggono i clienti dalle fluttuazioni di borsa. Proprio mentre Dataroom andava in stampa, l’Autorità per l’energia pubblicava gli esiti della sua analisi sui contenuti dei contratti di approvvigionamento: non ci sono evidenze di significativo disallineamento tra i prezzi di acquisto e di vendita, almeno per quanto riguarda il 2020 e il 2021. Per il 2022 si vedrà. Ancora, parlando della tassa sugli extraprofitti Gabanelli sembra suggerire che la sua corresponsione dipenda dalla buona volontà degli operatori, in assenza della quale “i soldi per aiutare le famiglie e le imprese in difficoltà bisognerà trovarli aumentando il debito pubblico o tagliando i servizi pubblici”. Ma se, alla fine dei probabili contenziosi, la tassa sarà giudicata bocciata e non dovrà essere versata, non sarà per la cattiveria dei contribuenti ma per l’imperizia del governo che ha scritto una norma senza capo né coda.

Poi ci sono errori blu, più gravi. Il primo riguarda le coperture effettuate dagli operatori per proteggere sé stessi e i propri clienti dalle oscillazioni della materia prima. Tali pratiche vengono descritte come speculative ma in realtà sono normali e dovute, in quanto preservano le imprese dal fallimento e i clienti dal perdere i propri fornitori. Si tratta, nella sostanza, di assicurazioni contro il rischio prezzo, che consentono ai venditori di energia elettrica e gas di offrire proprio quei contratti a prezzo bloccato che, come riconosce Gabanelli stessa, hanno tutelato milioni di clienti dai rincari.

La parte più imprecisa dell’articolo riguarda la descrizione dei meccanismi di formazione dei prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica. Prima di vedere nel dettaglio le affermazioni di Gabanelli è opportuno ricordare brevemente cosa prevedono le regole attualmente in vigore. I prezzi all’ingrosso dell’energia elettrica sul mercato del giorno prima (la principale sessione di mercato) seguono la regola del costo marginale: in ogni ora della giornata, gli impianti di produzione vengono ordinati in ragione crescente dei loro costi variabili (cioè prevalentemente dei costi del combustibile) fino a intercettare la curva di domanda. Il prezzo di equilibrio dipende dall’impianto più costoso necessario a soddisfare la domanda in un dato momento: cioè, appunto, il costo marginale del sistema (si veda la Figura sotto).

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La logica del meccanismo è che i prezzi di equilibrio coprono interamente i costi marginali dell’ultimo impianto. Di conseguenza, tutte le altre centrali (rinnovabili e no) ricevono un prezzo superiore ai loro costi marginali. La differenza, detta rendita inframarginale, serve a coprire i costi fissi. Tipicamente, gli impianti con alti costi fissi (rinnovabili, nucleare) hanno bassi costi variabili; viceversa quelli con alti costi variabili (a gas, per esempio) hanno bassi costi fissi. Gabanelli scrive che tale meccanismo “non lo applica nessun altro paese”. In realtà, è in uso in tutta Europa. Inoltre, secondo Dataroom il sistema “penalizza l’Italia” perché “il prezzo dell’elettricità dipende esclusivamente dall’andamento del prezzo del gas”; più avanti si ribadisce che “il prezzo di vendita sulla bolletta si aggancia alla quota maggiore con cui si compone il MWh, e il 44 per cento dell’elettricità è prodotto con il gas”. Ma, come abbiamo appena visto, il sistema del prezzo marginale prevede che i prezzi di equilibrio dipendano dalla tecnologia marginale (che spesso è il gas, in Italia), non da quella prevalente. La Figura qui sotto mostra come cambia il prezzo di equilibrio, a parità di domanda, se aumenta la quota di rinnovabili. Che poi, in Italia, le rinnovabili siano state (e in parte ancora siano) generosamente sussidiate è un altro discorso che ci porterebbe lontano.

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È questa la ragione per cui, per esempio, in Francia i prezzi sono simili a quelli italiani, sebbene gran parte dell’energia sia prodotta da nucleare: conta l’impianto marginale, che spesso è alimentato a gas a Parigi quanto a Roma. Ed è questa la ragione per cui, anche in Italia, vi sono (poche) ore in cui l’intera domanda è soddisfatta dalle rinnovabili, o quasi, e ciò si traduce in prezzi di equilibrio più bassi: per esempio, lo scorso 17 aprile alle 15 l’energia veniva scambiata attorno ai 10 euro/MWh. Tali ore sono più frequenti in altri paesi dove addirittura i prezzi si collocano occasionalmente in territorio negativo: ma ciò non dipende dal fatto che sono più o meno favoriti da una regola stabilita due decenni fa; deriva dal diverso mix di generazione. Il meccanismo del prezzo marginale può essere criticato, naturalmente; chi scrive appartiene alla minoranza di quanti sostengono la necessità di un suo complessivo ripensamento. Ma nessuno tra gli esperti crede che, cambiando la regola, cambierebbero granché i prezzi di equilibrio, poiché questi dipendono, in ultima analisi, dalle condizioni concrete di domanda e offerta.

A questo punto, Gabanelli si avventura a stimare i costi di produzione dell’energia elettrica dalle diverse fonti energetiche e non si capacita che fonti con costi relativamente bassi siano remunerate ai prezzi di borsa. Per esempio, “il solare costa tra i 20 e i 30 euro/MWh, l’eolico tra i 30 e i 40, l’idroelettrico tra i 10 e i 20, il carbone attorno ai 50 euro, il nucleare di importazione tra i 35 e i 40”. Verrebbe da dire: magari! Ma non è questa la sede per discutere stime che, nella migliore delle ipotesi, si riferiscono a nuovi impianti, e certamente non a quelli già in esercizio. Ci sono tre fallacie logiche nell’accostare queste stime ai prezzi di borsa.

La prima: costi e prezzi (e anche ricavi e utili) sono concetti molto differenti. Quanto è “costato” a Gabanelli scrivere l’articolo? I suoi costi di produzione assommano a qualche decina di euro (la bolletta elettrica per alimentare il computer su cui ha scritto, le quote di ammortamento del computer stesso, e le telefonate che avrà fatto per documentarsi). Verosimilmente, il Corriere della sera l’ha pagata una cifra più consistente. Chiamateli, se volete, extraprofitti.

La seconda fallacia sta nella confusione tra i costi medi di produzione e i prezzi di vendita nell’arco della vita dei singoli impianti: per esempio, forse l’energia solare costa, in media, 20-30 euro, ma – per effetto del prezzo marginale – in molte ore l’energia otterrà un prezzo inferiore, nullo o addirittura negativo. E’ cruciale, per la sostenibilità degli investimenti, che essi possano contare su alcune ore in cui ottengono prezzi significativamente superiori ai costi.

A meno che, terza fallacia, parte dell’energia non sia venduta come spesso accade fuori borsa, attraverso contratti a lungo termine. Questi accordi prevedono prezzi ben diversi da quelli spot e che quindi non beneficiano in alcun modo, né diretto né indiretto, dell’aumento delle quotazioni del gas.

Al di là di queste osservazioni puntuali, l’articolo soffre di un problema più generale: mancando la comprensione dei meccanismi di mercato, tende a confondere sistematicamente l’elettricità col gas, i mercati all’ingrosso con quelli al dettaglio e una tipologia di clienti con l’altra. In tal modo, anche quando vengono messi in fila dei fatti di per sé inoppugnabili, sembra che siano istituite tra di essi delle relazioni che in realtà non esistono, o sono diverse da come appare.

Prendiamo per esempio questo passaggio, in cui Gabanelli tenta di spiegare perché i clienti in maggior tutela (“18 milioni fra luce e gas”) nel primo trimestre 2022 hanno pagato (il gas) in media 96 euro/MWh. Due le cause, secondo Dataroom: “1) il prezzo del gas naturale è legato alla quotazione media sul trimestre precedente della borsa di Amsterdam”. Ma questo riguarda la formula per l’indicizzazione dei prezzi tutelati del gas, non si applica alla maggioranza dei clienti che hanno sottoscritto contratti sul mercato libero. Gabanelli prosegue: “2) il prezzo di vendita sulla bolletta” dipende dal “meccanismo del prezzo marginale”. Abbiamo già visto che il funzionamento di tale meccanismo è diverso da come viene raccontato. A prescindere da ciò, questo non riguarda i prezzi al dettaglio del gas, ma quelli all’ingrosso dell’energia elettrica. I prezzi della borsa elettrica hanno un legame solo indiretto col Ttf (la borsa di Amsterdam). I prezzi di tutela del gas e della luce sono stabiliti attraverso procedure completamente differenti. E, soprattutto, non esiste solo la tutela: Gabanelli riconosce che ci sono 30 milioni di consumatori serviti sul mercato libero, spesso con contratti a prezzo fisso, contro i 18 milioni in tutela. Ma poi concentra l’attenzione solo su questi ultimi, dando quasi la sensazione che siano rappresentativi dell’intero mercato. Non è così, sono solo una minoranza e, semmai, andrebbe denunciato che il governo ha colpevolmente rinviato la liberalizzazione. Prendere una minoranza come paradigmatica della totalità dei consumatori è fuorviante. Addossare agli operatori la responsabilità di meccanismi di determinazione del prezzo finale stabilite per legge è, semplicemente, sbagliato.

Questa confusione sistematica tra elettricità e gas, ingrosso e dettaglio, tutela e mercato libero rende l’intero articolo caotico. Più ancora delle imprecisioni, infatti, è la costruzione del ragionamento a essere impervia, perché appare come un continuo (e forse inconsapevole) esercizio di illusionismo. Tant’è che, nella chiosa finale, Gabanelli spiega quanto sia complesso ricostruire i reali costi sostenuti dagli operatori per la produzione o importazione di gas ed energia elettrica, e dunque comprendere quanto di “extra” ci sia nei loro profitti. Ne deduce che “in assenza di dati corretti sarà pure difficile stabilire un tetto al prezzo del gas”. Sarebbe una conclusione ineccepibile se qualcuno stesse proponendo un tetto al prezzo finale del gas. Ma questo non lo chiede quasi nessuno, e certamente non il governo italiano. Il quale invoca semmai a livello europeo (non nazionale) una misura per porre un limite ai prezzi all’ingrosso (non al dettaglio) con l’obiettivo di contenere i prezzi di acquisto del gas (e soltanto come conseguenza quelli di rivendita).

In sintesi, Dataroom comincia dicendo che gli operatori (e in particolare quelli di grandi dimensioni) fanno enormi profitti perché hanno comprato prima a prezzi più bassi: non è vero, hanno comprato con contratti di lungo termine indicizzati. Quindi il loro prezzo di acquisto risente dei rincari, anche se in ritardo, così come quello di vendita. Segue dicendo che il governo impone un extraprelievo su prezzo pagato e prezzo realizzato in vendita. Anche questo non è vero perché la tassa colpisce tutte le operazioni compiute in acquisto e vendita, incluse quelle straordinarie (per esempio cessioni di asset) o che nulla hanno a che fare con i prezzi del gas. Nello svolgere il ragionamento inciampa in una ricostruzione approssimativa e sbagliata del funzionamento dei mercati e delle modalità di determinazione dei prezzi. Inevitabilmente si aggroviglia in una serie di ragionamenti da cui ritiene di ricavare che il mercato è opaco e impedisce di colpire gli extra margini delle società importatrici. Quando l’unico dato inequivocabile è che il prezzo all’ingrosso è aumentato, riflettendosi sul prezzo retail di gas ed energia elettrica. E la lettura più semplice è anche quella più corretta.

(Estratto di un articolo pubblicato su Il Foglio; qui la versione integrale)

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