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Libia

Eni, Total, Shell e non solo, ecco come si muovono gli Emirati Arabi Uniti in Libia con Haftar

Conversazione con Cinzia Bianco, analista esperta di Paesi del Golfo Persico. Bianco, che collabora con il Middle East Institute, il Middle East Policy Council e la rivista Limes, è consulente della società americana Gulf State Analytics.

“Gli Emirati Arabi Uniti restano in prima linea per garantire che l’espansione di Haftar in Libia avvenga in modo coordinato, specialmente per quanto riguarda il mercato energetico. Per questo il vertice su Sharara si è tenuto ad Abu Dhabi”.

È quello che sottolinea dopo il vertice Cinzia Bianco, analista esperta di Paesi del Golfo Persico, in una conversazione con Start Magazine.

Il premier del governo di accordo nazionale libico, Fayez al Sarraj, e il direttore della compagnia petrolifera libica National Oil Corporation (Noc), Mustafa Sanallah, hanno trovato un’intesa ad Abu Dhabi – ha scritto Agenzia Nova – per la ripresa della produzione nel sito di Al Sharara, il campo da 300 mila barili di petrolio al giorno gestito nel sud della Libia dalla Noc in collaborazione con la spagnola Repsol, la francese Total, l’austriaca Omv e la norvegese Equinor.

Almeno questo è quanto annunciato dal governo di Tripoli, che parla di accordo trovato durante un incontro che i due hanno tenuto ieri ad Abu Dhabi. Nessuna menzione del protagonista della crisi libica, il generale Khalifa Haftar, la cui presenza ad Abu Dhabi era stata annunciata nei giorni scorsi dalla stampa libica.

Bianco, che collabora con il Middle East Institute, il Middle East Policy Council e la rivista Limes, è consulente della società americana Gulf State Analytics.

Perché il vertice su Sharara si è tenuto ad Abu Dhabi? Anche nel Golfo si segue il dossier libico? E perché? E come?

Il dossier libico è seguitissimo nel Golfo fin dal 2011, quando tutte le monarchie arabe del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), spinsero la Lega Araba ad approvare ufficialmente una missione NATO contro Muammar Gheddafi. Da subito Qatar ed Emirati Arabi Uniti furono i Paesi del Golfo più attivi, contribuendo fighter jets alla missione e persino piccoli gruppi di militari scelti sul terreno. Addirittura alcuni soldati qatarini erano presenti quando fu trovato Gheddafi.

Ma tra Qatar ed Emirati Arabi Uniti non sono rose e fiori…

Infatti una volta fatto fuori Gheddafi vennero fuori anche le grandi contraddizioni tra Doha, che sosteneva milizie legate alla Fratellanza Musulmana e Abu Dhabi, che sosteneva invece milizie tribali e altre forze anti-islamiste. Questa contrapposizione si è evoluta ma rafforzata durante e dopo la guerra civile libica del 2014, quando il Qatar ha consolidato il supporto per il governo di Fajez al-Serraj mentre gli Emirati Arabi Uniti quello per il General Khalifa Haftar. Entrambe le monarchie hanno fornito sostegno politico, diplomatico, finanziario, logistico e, in minore misura, militare alla fazione prediletta. Addirittura jet emiratini hanno preso parte, con quelli egiziani, ai bombardamenti su obiettivi strategici controllati da milizie islamiste già nel 2014.

Quali sono le implicazioni politiche ed economiche della partita libica per le due monarchie?

La regione nordafricana in subbuglio con le potenze mondiali in ritirata o indebolite offre spazi strategici per estendere l’influenza di due Stati piccoli ma con grandi risorse e grandi ambizioni. La crisi con il Qatar del 2017 ha cambiato le carte in tavola: sotto pressione dai Paesi vicini, Doha ha un po’ trascurato le avventure regionali, riducendo sostegno politico e finanziario al campo di al-Serraj, proprio mentre Abu Dhabi rafforzava il legame con quello di Haftar. Questa dinamica non può essere ignorata quando si misurano i crescenti risultati dell’uno a discapito dell’altro. In questa situazione e con gli Stati Uniti sempre più disinteressati, il momento strategico è d’oro per rafforzare il controllo territoriale di Haftar nel Fezzan, e oltre.

Ma qual è il ruolo preciso degli Emirati?

Gli Emirati Arabi Uniti restano però in prima linea per garantire che quest’espansione avvenga in modo coordinato, specialmente per quanto riguarda il mercato energetico. Per questo il vertice su Sharara si è tenuto ad Abu Dhabi.

Quindi Abu Dhabi non è indifferente alle aspettative dell’Eni? E in che modo?

L’obiettivo di lungo termine degli Emirati Arabi Uniti è la consacrazione da potenza locale a attore regionale a tutti gli effetti. Questo ha delle grandi implicazioni politiche ma non a discapito degli interessi economici, commerciali ed energetici. In questo senso Abu Dhabi si muove all’interno di meccanismi predefiniti, come quelli del mercato energetico globale, e non intende sovvertirli. Se la competizioni tra le major energetiche come Eni, Total, Shell e tante altre è sempre esistita, ci sono dei punti fermi da preservare per evitare conseguenze di profonda instabilità nel lungo periodo. Tra questi punti fermi, c’è sicuramente la presenza di Eni in Libia che ha una sua storia profonda e si è radicata sul territorio a livello locale. Inoltre ENI, con grande consapevolezza del crescente ruolo delle monarchie del Golfo sull’intera regione mediorientale, ha ultimamente rafforzato il suo rapporto bilaterale con Abu Dhabi, creando interessi condivisi che sono da sempre una forma importante di mutua assicurazione.

Qual è la valenza geopolitica di queste operazioni per Eni?

Per Eni questo pivot sulla Penisola Arabica è, per certi versi, un’avventura relativamente nuova. Eni entra prepotentemente nella scena geopoliticamente più strategica per l’oil&gas e in un’ottica di lungo periodo. Quello che potrebbe essere interessante è capire se questi recentissimi accordi, avvenuti tutti nel giro di pochissimi giorni e in tre paesi diversi (EAU, Oman e Bahrein) siano parte di una strategia regionale che, magari, vada anche al di là della Penisola Arabica. Le monarchie del Golfo hanno infatti crescente influenza in diversi altri paesi della regione mediorientale e del continente africano, come appunto la Libia.

Vuole dire che bin Zayed è molto più influente di al-Sisi e Macron per Haftar?

Sicuramente per Haftar Egitto, Francia ed Emirati Arabi Uniti sono tre alleati indispensabili, ma diversamente. Mohammad bin Zayed, di fatto leader di Abu Dhabi e degli EAU, è il primo sostenitore di Haftar in termini finanziari. Ma, d’altra parte, comanda un piccolo Stato con limitate capacità su altri fronti, per esempio non potrebbe garantire una fornitura stabile di personale militare per controllare il lungo confine orientale, quello con l’Egitto. Qui entra in gioco al-Sisi il quale però, a sua volta, dipende in maniera significativa dal sostegno finanziario di Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Si è perso il conto oramai dei miliardi offerti in prestito, investimenti, donazioni dal 2013.

Però l’attivismo di Macron è sempre più evidente in Libia.

La Francia è sicuramente un attore estremamente rilevante da molti punti di vista ma, sopratutto, per la legittimità che da Paese europeo ed ex potenza coloniale garantisce ad Haftar sulla scena politica regionale e internazionale grazie al suo sostegno. Però, la domanda che mi pongo io è: se non ci fosse Abu Dhabi a mettere Haftar nelle condizioni di rafforzarsi sul terreno, quanto sarebbe disposta la Francia da sola a sobbarcarsi gli oneri di sostenere una campagna militare lunga e costosa come quella che Haftar sta portando avanti? Secondo un rapporto delle Nazioni Unite di giugno 2017, persino le armi di cui Haftar ha assoluto bisogno per la sua attuale campagna, e che gli garantiscono notevole superiorità militare, sarebbero state finanziate e smistate dagli Emirati Arabi Uniti.

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