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I Signori del Turbo Ambientalismo sono smentiti dai numeri. L’analisi del prof. Clò

L'analisi di Alberto Clò, economista esperto di energia, ex ministro dell'Industria e direttore della rivista Energia

Confrontandomi con gli ambientalisti, ho sempre sostenuto che il loro entusiastico convincimento che il ‘nuovo che avanza’ – rinnovabili, economia circolare, auto elettrica, internet delle cose e via andare – fosse risolutivo nella lotta ai cambiamenti climatici mi era di gran conforto, pur sembrandomi che le cose non muovessero in quella direzione.

Più che guardare al futuro lontano, ribattevo, avrebbero dovuto analizzare e capire il presente. Venivo tacciato alla meglio come pessimista poco attento al ‘nuovo che avanza’; alla peggio come retrogrado, se non interessato, sostenitore del petrolio e del metano.

Ebbene, spiace dirlo, ma le cose stanno andando male. Secondo Fatih Birol, direttore esecutivo dell’Agenzia di Parigi, le emissioni clima-alteranti aumenteranno nel 2018, sulla base dell’andamento dei primi nove mesi, a un nuovo record. Si confermerebbe così la crescita registrata nel 2017 dopo un triennio di stagnazione. Ne deriva, a dire sempre di Birol, che le possibilità di mantenere il riscaldamento del Pianeta entro gli 1,5-2°C, come suggerito recentemente dall’IPCC, sono sempre “più deboli ogni anno, ogni mese”.

Fonte: The Guardian

Morale: gli straordinari aumenti del solare e dell’eolico, ma lo stesso può dirsi per l’uso razionale dell’energia, alias risparmio energetico, non stanno ‘sostituendo le fonti fossili’ – come si continua a sostenere parlando di transizione energetica – semmai ne attenuano la crescita, che resta comunque molto robusta, se non altro in termini assoluti (che è quel che conta). La somma di più rinnovabili e più efficienza non è in grado, in buona sostanza, di controbilanciare l’apporto incrementale degli idrocarburi.

Altro discorso per il consumo di carbone che resta tendenzialmente crescente, pur se strettamente correlato all’andamento delle economie che più vi dipendono (Cina, India, Corea del Sud, Indonesia, etc.). Una loro crescita-zero si associa mediamente a minori consumi del 3%, mentre un loro aumento dell’1% li incrementa dell’1,5%.

Fonte: World Coal 2018-2050, World Energy Annual Report

Conclusione: allo stato delle cose, e non della loro percezione, siamo molto lontani dal tragitto per contenere il surriscaldamento entro gli 1,5°, rispetto al precedente target di 2°C, delineato dall’IPCC nel suo Rapporto reso pubblico l’8 ottobre scorso in occasione dei trent’anni dalla sua istituzione. Un rapporto di quasi impossibile lettura, per la sua lunghezza (1.284 pagine di cui 55 del solo glossario) e per le mille assunzioni e subordinate che forgiano i risultati dei modelli utilizzati. Su di essi si basa il pressante quasi drammatico appello della comunità scientifica che si riconosce nell’IPCC a ridurre nella misura del 45% le emissioni globali di CO2 entro il 2030 se si vogliono evitare effetti catastrofici sul clima e di conseguenza sull’intero Pianeta.

I piani nazionali presentati a Parigi dalla quasi totalità dei paesi che vi sottoscrissero l’Accordo del dicembre 2015, non sarebbero valsi a ridurre le emissioni di gas a effetto serra, che sarebbero comunque aumentate, a dire dell’IPCC, a 52-58 miliardi di tonn. eq. CO2. Le cose non sono nemmeno andate come promesso. Gli Stati hanno palesemente disatteso i loro impegni. Invertire la crescita delle emissioni ben prima del 2030 per poter puntare alla soglia di 1,5°C implica l’avvio di “rapid and far-reaching transitions in energy, land, urban and infrastructure (including transport and buildings), and industrial systems […]. These systems transitions are unprecedented in terms of scale […] and imply deep emissions reductions in all sectors, a wide portfolio of mitigation options”.

Tra le opzioni prospettate dall’IPCC perché questa transizione sia rapida ed efficace, due meritano di essere evidenziate. Da un lato, un aumento sbalorditivo del prezzo del carbonio necessario a modificare la struttura degli investimenti e quindi del mix di fonti di energia, sino a 5.500 dollari per tonnellata nel 2030 (si veda il documento riportato in calce, p. 78). Dall’altro lato, un più che raddoppio degli investimenti solo sul versante supply-side da 1,7 mila miliardi di dollari (2016) a 3,8 mila miliardi (ibidem, pp. 81-82). Che l’una o l’altra condizione possano avverarsi mi sembra altamente improbabile. Di tutto questo, ma anche del Rapporto dell’IPCC, poco si parla nei dibattiti nostrani sulle politiche climatiche: tutti incentrati su questioni marginali per lo più legate a interessi particolari. Forse non resta davvero, come è caro ai nostri ambientalisti, che confidare… nel ‘nuovo che avanza’.

Il documento citato è reperibile qui.

(analisi tratta dalla rivista Energia)

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