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Economie

Come la guerra dell’energia sta ridisegnando gli equilibri mondiali

Il conflitto ucraino sta cambiando la politica energetica nell’Europa centro-orientale, percorsa da pipeline che per decenni hanno segnato il legame (e la dipendenza) con Mosca. Ora tutto torna in gioco. L'articolo di Stefano Grazioli dall’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine

 

La guerra in Ucraina sta cambiando gli equilibri geopolitici mondiali, con l’accentuata contrapposizione tra l’Occidente, riunito simbolicamente intorno alle tre sigle Usa, Ue e G7, e la Russia, quest’ultima appoggiata sul fronte orientale dalla Cina. La globalizzazione ha reso il tentativo di isolamento di Mosca problematico e il Cremlino può contare sulle aperture sul fianco euroasiatico, che parte dalla Turchia e arriva sino all’India, e naturalmente rimangono i rapporti con vari paesi dell’America Latina e del continente africano. Questa geografia del conflitto è importante per comprendere gli spostamenti che l’invasione russa del 24 febbraio ha causato in uno dei settori fondamentali dell’economia mondiale, quello energetico.

Non v’è dubbio che, al di là di quello che sta accadendo direttamente sul piano militare in Ucraina, la guerra dell’energia sia l’aspetto parallelo più significativo che sta incidendo sui sistemi politico-economici degli attori in campo: in primo luogo in Russia e in Europa, per decenni legati dai tubi che fin dai tempi dell’Unione Sovietica, cioè dal pieno della Guerra fredda, hanno comunque trasportato verso Occidente gas e petrolio. L’equilibrio nato nel mondo dei due blocchi contrapposti si è ora frantumato, a dire il vero non senza segnali di preavviso, e rischia di rivelarsi da un lato sul breve periodo un grave problema soprattutto per chi ha costruito un modello in cui le importazioni di energia russe hanno sempre avuto un ruolo preponderante; la sfida è ora quella di trovare fonti e vie alternative. Dall’altro lato Mosca, abbandonato lo schema della dipendenza simmetrica che ha visto le esportazioni solo in una direzione, verso gli unici mercati raggiungibili e aperti, con l’ascesa di Cina e India ha trovato la disponibilità di nuove piazze.

MOSCA E PECHINO

Per la Russia la guerra partita nel 2022 ha dato un’accelerazione a un processo già avviato in precedenza, in concomitanza al riavvicinamento strategico con la Cina, partito in grande stile all’inizio dello scorso decennio. Con l’arrivo di Xi Jinping a Pechino, Vladimir Putin ha trovato un partner importante e affidabile e non è un caso che il primo grande contratto (30 anni di forniture di gas attraverso il nuovo gasdotto russo-cinese Power of Siberia) sia stato siglato tra i due in pompa magna già nel 2014, anno in cui è esplosa la crisi a Kiev, con quello che è stato considerato a Mosca un colpo di Stato, seguito dall’annessione della Crimea e dall’avvio della guerra nel Donbass.

La Russia, ben prima dell’invasione ucraina, aveva insomma già cominciato a cambiare strategia, con l’obiettivo dei nuovi mercati asiatici, sia per il gas che per il petrolio. Una decisione che per il Cremlino correva su un doppio binario, tra la promettente partnership con la Cina, Paese chiave nel nuovo mondo multipolare, e i problemi sul fronte occidentale legati sia alle vicende ucraine sia all’interventismo degli Stati Uniti sulla scacchiera caucasica e mediterranea a partire dai primi anni Duemila, dalla Georgia all’Ucraina, dalla Siria alla Libia, all’Afghanistan. I tubi russi hanno preso quindi la direzione della Cina, anche con il raddoppio previsto del gasdotto siberiano deciso nel 2020. Mosca inizialmente ha mantenuto sempre buoni rapporti con i tradizionali partner della vecchia Europa, Italia e Germania in primis, mentre quelli con Polonia e Paesi Baltici, considerati geopoliticamente satelliti della Nato più che membri dell’Unione Europea, sono peggiorati visibilmente. Il confronto è esploso con il conflitto del 2022, le sanzioni occidentali e la risposta russa con l’arma energetica.

BERLINO E MOSCA

L’asse fra Berlino e Mosca è sempre stato solido, ma con l’invasione russa dell’Ucraina si è ritornati quasi all’anno zero. Bloccato con le sanzioni il Nord Stream 2, il secondo braccio del gasdotto sotto il Baltico, è rimasta ora in funzione, ridotta, solo la prima pipeline. Per la Germania si tratta di guai grossi, almeno sul breve periodo, dato che buona parte dell’industria tedesca e il riscaldamento nelle abitazioni dipende dal gas, e questo arriva in larga parte dalla Russia. Nel 2020 il gas soddisfaceva oltre il 30% del fabbisogno dell’industria, mentre più del 41% delle abitazioni private nel 2019 andava a gas.

Di fronte a questi numeri Berlino ha alternative complesse, sia per quel che riguarda altre vie, come quelle via mare per il trasporto di gas naturale liquefatto (Gnl), sia per le fonti. Per il Gnl, il governo tedesco ha predisposto un piano per la costruzione di cinque-sei rigassificatori galleggianti tra Mare del Nord e Mar Baltico. I primi due potrebbero entrare in funzione entro la fine di quest’anno, gli altri fra il 2023 e il 2024, sempre ammesso che le corsie burocratiche privilegiate accelerino gli ordinari tempi di realizzazione. Per quanto riguarda le fonti, al nucleare è già stato dato l’addio ed entro la fine dell’anno andranno in pensione le ultime tre centrali in funzione, con due che resteranno solo in riserva operativa. Il condizionale resta d’obbligo, visto che l’emergenza energetica potrebbe portare il governo a un ripensamento.

In ogni caso la Germania, con la sua dipendenza dal gas russo, è il paese europeo in maggiore difficoltà, e i costi per la rinuncia alle importazioni da Mosca saranno enormi, sia per il reperimento dell’energia sostitutiva su un mercato dove i prezzi sono schizzati alle stelle, sia per compensare gli squilibri creati nell’industria e nella popolazione. Lo spettro di una Germania in recessione è quello che fa paura al resto d’Europa, che potrebbe essere trascinato nel tunnel della depressione.

MOSCA E VARSAVIA

Tra i paesi che nell’Unione possono fare tranquillamente a meno dell’import da Mosca c’è Polonia, che dall’inizio del conflitto si è schierata con l’ala dura di quelli che da subito, dall’altra parte dell’Atlantico, hanno cercato un embargo energetico totale. La Polonia, dipendente per oltre il 70 per cento dal carbone, in massima parte estratto a casa propria, è sempre stata critica nei confronti dei tubi che hanno legato direttamente Germania e Russia, richiamando alla memoria già con la costruzione di Nord Stream 1 il patto Molotov-Ribbentrop. Varsavia è alla guida della crociata baltica, insieme alle tre repubbliche ex sovietiche, per il Gnl proveniente dagli Stati Uniti.

Il gas russo, almeno quel poco che importava, è di facile sostituzione ed è stato il primo che la Russia stessa ha tagliato, considerando anche il fatto che i contratti esauriti lo scorso anno non erano stati rinnovati e per un periodo di tempo, durante l’inverno 2021/22, la Polonia ha acquistato gas russo in Germania facendolo passare per il gasdotto Yamal, operativo solitamente da est verso ovest, appunto in senso inverso. Quest’anno sarà difficile, visto la penuria sul mercato, con gli impianti di stoccaggio in buona parte riempiti ovunque, ma non al limite, e in ogni caso probabilmente superflua vista la minima incidenza del gas nel mix energetico polacco. Negli ultimi dieci anni le rinnovabili sono passate inoltre dal 6 al 16 per cento, marginalizzando ulteriormente le importazioni di idrocarburi.

Gli esempi di Germania e Polonia servono insomma a illustrare come a seconda della situazione di partenza il conflitto ucraino abbia cambiato e stia cambiando la politica energetica europea. Le sanzioni occidentali possono essere anche viste come l’acceleratore per la ricerca di nuove vie e nuove fonti in sostituzione al gas e al petrolio russo, su cui ora e in futuro non si potrà contare. Se Berlino punta sulle rinnovabili e forse ripensa il nucleare, Varsavia rimane ancorata al carbone e ogni paese dell’Unione ha le sue specificità che rendono ancora più difficile trovare risposte univoche. Resta che vedere come si muoveranno sia Bruxelles sia le singole capitali, spinte anche dall’attore esterno statunitense che nel gioco dell’energia sul continente europeo vuole fare la sua parte, sia per quel riguarda il gas naturale liquido, la transizione verde o la costruzione di nuove centrali nucleari: le prime targate Westinghouse, che andranno a sostituire quelle di generazione sovietica, saranno realizzate alla fine di questo decennio proprio in Ucraina. E senza dimenticarsi infine che la guerra dell’energia non è certo tra dittature e Stati di diritto, visto che l’Occidente continua a rifornirsi, e lo farà sempre di più, in Paesi che tra le monarchie del Golfo e le autocrazie nordafricane, passando per le satrapie caucasiche e centro-asiatiche, dall’Azerbaijan al Kazakistan, sono tutt’altro che modelli di democrazia.

 

È possibile scaricarne gratuitamente la versione digitale in pdf utilizzando questo link: https://www.startmag.it/wp-content/uploads/SM_16_web.pdf.

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