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Che cosa cambia dopo che Occidental ha strappato Anadarko Petroleum a Chevron

Diversi i fattori dell'operazione Occidental-Anadarko portano a chiedersi se si sia riaperta la corsa al gigantismo negli idrocarburi. L'analisi dell'economista Alberto Clò tratta da Rivista Energia

Diversi i fattori dell’operazione Occidental-Anadarko portano a chiedersi se si sia riaperta la corsa al gigantismo negli idrocarburi. L’analisi dell’economista Alberto Clò tratta da Rivista Energia

Al termine di un breve intenso scontro, l’indipendente Occidental Petroleum ha strappato al gigante Chevron l’acquisto di Anadarko Petroleum, superando di 7 miliardi di dollari la sua offerta di 50 mld. doll.

Anadarko è una media impresa americana con assets soprattutto nello shale oil dell’enorme bacino Permian – vera posta del contendere tra le due compagnie, già i maggiori produttori nell’area – ma anche nell’offshore del Golfo del Messico e nel gas metano (Mozambico).

Diversi i fattori – l’alto valore della transazione, 57 miliardi di dollari; l’assenza di importanti operazioni M&A dal 2015, quando Shell acquistò BG per 53 mld doll.; la fiducia che ne traspare sul futuro degli idrocarburi nonostante i molti de profundis – portano a chiedersi se si sia riaperta la corsa al gigantismo negli idrocarburi.

Non penso che questa via possa ritornare ad essere, come lo fu in passato, una strategia generalizzabile all’intera industria, ma costituire piuttosto una scelta individuale delle singole aziende volta a razionalizzare il portafoglio delle loro attività nei singoli business o nelle aree geografiche.

Il gigantismo potrebbe non essere la strada per tutti, ma per alcuni può fare la differenza

È il caso appunto dell’acquisto non poco costoso di Anadarko da parte di Occidental, col supporto finanziario di 10 mld. doll. da parte di Warren Buffett. Tre gli obiettivi:
1. evitare di essere essa stessa oggetto di scalata;
2. consolidare le posizioni acquisite nel Permian Basin che già gli garantisce i due-terzi dei cash flow;
3. fare efficienza con sinergie (stimate in 3,5 mld. doll. l’anno).

La dimensione in tutti i tre casi potrebbe fare la differenza. È sicuramente vero che di per sé non garantisce efficienza, competitività, leadership ma lo è altrettanto il fatto che in tempi di volatilità, incertezza, rischi, come mai osservati, la dimensione è sempre più un fattore dirimente. In tutte le filiere energetiche: dagli idrocarburi all’elettricità.

Se guardiamo alla storia, la spinta alla concentrazione, alla crescita dimensionale, alla diversificazione geografica è stata una costante, pur con diversa intensità nel tempo, concretizzatasi in diverse ondate.

Nella storia la spinta alla concentrazione si è concretizzata in diverse ondate

L’inizio di quella più rilevante può datarsi l’11 agosto 1998 con l’annuncio di British Petroleum (allora terza major) dell’acquisto dell’americana Amoco (nona) per 48 mld doll. (pari a 75 al giorno d’oggi): record delle acquisizioni cross border.

Nemmeno quattro mesi dopo, l’1 dicembre 1998, questa operazione veniva surclassata dall’annuncio di Exxon (allora seconda major dietro R.D.Shell) di Mobil (quarta) per la stratosferica cifra di 70 mld. doll. (123 d’oggi).

A distanza di 87 anni dall’ingiunzione della Corte Suprema americana alla Standard Oil Trust di John Rockfeller di smembrarsi in 33 società, le due sue principali ‘costole’ ritornavano ad essere un’unica realtà aziendale sopravanzando di gran lunga le altre ‘sorelle’.

A originare quel processo di consolidamento giocarono più fattori:
(a) il contro-shock dei prezzi del 1988, dimezzatisi a minimi sui 10 doll./bbl, causato dalla crisi finanziaria che dall’epicentro asiatico si propagò a Russia e America Latina, e accentuato dal fatto che interveniva nel punto di massimo del ciclo espansivo degli investimenti;
(b) il crollo generalizzato dei corsi delle materie prime, alimentato dalla finanziarizzazione dei mercati che avrebbe omogeneizzato e banalizzato le transazioni cartacee moltiplicandone il volume a livelli ampiamente superiori al quelle fisiche;
(c) l’opportunità di allargare la base di riserve minerarie approfittando dei bassi corsi azionari che rendevano più conveniente acquisire barili altrui che scoprirli in proprio.

L’andamento dei prezzi è la principale spinta verso fusioni e acquisizioni, ma non tutte portano al successo

La corsa al gigantismo fu la risposta al crollo dei prezzi. Le finalità erano chiarite ad ogni annuncio di fusioni-acquisizioni:
(a) taglio drastico dei costi nell’intera filiera petrolifera, con impressionanti espulsioni di manodopera (anche specializzata) ed outsourcing di ogni attività nel campo dei servizi strumentali alla ricerca ed esplorazione mineraria;
(b) diversificazione del rischio specie nelle aree economicamente e politicamente più tribolate;
(c) ricreare minime condizioni di stabilità senza cui era ed è impensabile vi sia un ordinato sviluppo degli investimenti.

A quelle mega-mergers seguirono ondate minori di assestamento: con le fusioni-acquisizioni Chevron-Texaco, Total-Fina-Elf, Conoco-Phillips, Chevron-Unocal che ridisegnarono la geografia industriale degli idrocarburi.

Non tutte ebbero grande successo. Sicuramente fu vero per Exxon-Mobil, che in un decennio aumentò di 3,5 volte il ritorno sul capitale e del 150% il valore delle azioni.

Non fu comunque l’unica strategia di crescita, come dimostrò Eni che ottenne buoni risultati puntando sulla crescita organica forte degli ottimi successi nell’esplorazione.

La storia non si ripete mai eguale, ma vi sono alcuni interessanti parallelismi, tra cui il rischio di una nuova impennata dei prezzi

La storia non si ripete mai eguale, ma alcuni parallelismi tra ieri e oggi aiutano a capire quel che va accadendo e potrà accadere. Simile è, in primo luogo, il contro-shock dei prezzi che nel 1988, come detto, vide le quotazione del Brent dimezzarsi a 10 doll./bbl (26 d’oggi) e nel 2014 precipitare da 114 a 30 doll./bbl.

A questo crollo le imprese hanno risposto in proprio con un drastico calo dei costi – scaricati sulle imprese fornitrici – recuperando livelli di redditività superiori a quelli con prezzi due-tre volte superiori.

All’ostilità di un tempo tra imprese e paesi produttori, seconda similarità, si è sostituita una forse ancor più critica ostilità verso l’industria da parte delle opinioni pubbliche, dei governi, degli investitori in relazione soprattutto alla vexata questio dei cambiamenti climatici e i conseguenti rischi che politiche aggressive possano affondarne parte delle riserve o accelerare il punto di svolta della domanda, la peak oil demand.

Mentre molte imprese, specie quelle europee, vanno adottando politiche accomodanti verso le tecnologie low-carbon, pur mantenendo il loro core business negli idrocarburi, altre, specie quelle americane, a partire da Exxon, vanno rafforzandosi nei business interni dello shale oil e del gas metano, cercando di cogliere le enormi opportunità di sviluppo delle esportazione.

Ma vi è una terza similarità tra ieri e oggi che vale evidenziare: ed è la forte contrazione degli investimenti rispetto ai loro normali cicli. In passato, vi giocò soprattutto l’eccesso di capacità, da cui era originato il crollo dei prezzi, e la bassa redditività che ne derivava. Da quel vuoto di investimenti derivò, con l’irrompere nei mercati internazionali dei paesi emergenti, l’ininterrotta ascesa dei prezzi dai 18 doll/bbl nel 1999 a massimi prossimi a 150 doll/bbl nel 2008.

Oggi il crollo degli investimenti è motivato, da un lato, dalla severa disciplina finanziaria che le imprese si sono date e dalla volontà di soddisfare i loro azionisti, ma, dall’altro, dai citati rischi delle politiche climatiche, effettive o anche solo minacciate. D’altra parte, perché investire se tra due-tre decenni, come sostiene larga parte dei previsori, la domanda sarà soddisfatta dalle rinnovabili? Scommessa però molto rischiosa.

Anche se è indiscutibile infatti che i progressi della tecnologia dal lato dell’offerta hanno drasticamente aumentato la produttività del capitale investito nell’upstream – riducendo i costi di sostituzione delle riserve e quelli di ricerca e sviluppo – lo è altrettanto il fatto che per garantire l’equilibrio dei mercati nel lungo termine (2040) è necessario realizzare nuova capacità produttiva di petrolio per 30 milioni di barili al giorno: per sostituire la produzione corrente, sopperire al declino naturale dei giacimenti, soddisfare la crescita della domanda.

Che questo possa accadere è tutt’altro che certo, così che non si possa escludere un’ultima similarità tra ieri e oggi: che la curva dei prezzi possa conoscere una nuova forte fase ascendente.

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