skip to Main Content

Waste To Fuel

Biocarburanti dai rifiuti attraverso il Waste to Fuel

L’approfondimento di Luca Longo Prendere esempio dalla natura, ma farlo meglio. Questo l’obiettivo che si sono posti i ricercatori del Centro Ricerche Eni per l’Energia Rinnovabile e l’Ambiente di Novara. Qui nel 2012 è nato il primo processo che permette di trasformare in bio-olio la frazione organica dei rifiuti solidi urbani. Si chiama Waste to…

Prendere esempio dalla natura, ma farlo meglio. Questo l’obiettivo che si sono posti i ricercatori del Centro Ricerche Eni per l’Energia Rinnovabile e l’Ambiente di Novara.

Qui nel 2012 è nato il primo processo che permette di trasformare in bio-olio la frazione organica dei rifiuti solidi urbani. Si chiama Waste to Fuel (W2F).

E nel 2019 a Gela è partito il primo impianto pilota continuo basato proprio su questa tecnologia.

Dagli scarti urbani nasce, quindi, un idrocarburo che si può impiegare direttamente come combustibile oppure inviare a un successivo stadio di raffinazione per ottenere biocarburanti per le nostre automobili…

Eliminare i rifiuti o – meglio ancora – trovare il modo per utilizzarli e tirare fuori l’energia che ancora contengono è un obiettivo che si sta cercando di raggiungere in tutto il mondo. Ma in Italia nasce la prima invenzione e la prima realizzazione industriale completa.

In realtà non è proprio una invenzione completamente originale… è l’ultima evoluzione altamente tecnologica di un processo vecchio quanto gli esseri umani: si tratta di bruciare i rifiuti per eliminarli e per recuperare parte dell’energia che vi è ancora intrappolata.

Già nel paleolitico, infatti, qualche pioniere dell’ecologia deve aver pensato che – invece di bruciare solo la legna – si potevano bruciare anche gli scarti prodotti dalla propria famiglia per scaldarsi e cuocere il cibo. Oltretutto, era anche più comodo: non doveva andare a raccogliere rami secchi e portarli fino alla grotta e, viceversa, non doveva andare a buttare i rifiuti da qualche parte. Geniale e molto green!

Dalle caverne alle metropoli il processo è rimasto sempre lo stesso: si ottiene energia consumando altra energia. Come? Basta scaldare i rifiuti urbani (spendendo energia) che per loro natura sono ricchi d’acqua (ne contengono fino al 70%), fino a quando tutta l’umidità viene eliminata e le particelle che li compongono passano allo stato gassoso. In questo modo possono finalmente bruciare liberando la loro energia. E’ a questo punto che i rifiuti possono scaldare grotte, palafitte, case e grattacieli.

Da un secolo e mezzo abbiamo imparato che è più efficace ed ecologico raccogliere i rifiuti e bruciarli in grossi impianti dedicati piuttosto che nel cortile dietro casa o dietro grotta. Dai primi inceneritori nati a Nottingham nel 1874 e a Manhattan nel 1885, raccogliere tutti i rifiuti della città, concentrarli in un posto e bruciarli tutti assieme presenta dei vantaggi in termini di efficienza e permette anche di fare avvenire la combustione in modo più controllato. L’avveniristico impianto Amager Bakke – che gestisce i rifiuti della città di Copenhagen – è uno dei più avanzati del settore. Fa parte della classe degli inceneritori a grate, ha una efficienza energetica enorme rispetto alle generazioni precedenti, ma ancora limitata solo al 28% proprio perché deve trattare i rifiuti ad alta temperatura e fare evaporare tutta l’acqua che contengono per poterli valorizzare. Inoltre, deve raffreddare e gestire in modo adeguato tutti i gas e i fumi prodotti per limitare l’inquinamento dell’ambiente.

Al Centro Ricerche Eni per le Energie Rinnovabili e l’Ambiente hanno pensato di fare un grande passo avanti guardando ancora più indietro rispetto al nostro amico del Paleolitico, pensando bene di studiare un evento naturale molto più grande e più antico e della durata di diverse centinaia di milioni di anni. Questo processo, basato sulla decomposizione anaerobica dei primi organismi viventi, ha permesso di creare e di accumulare nelle viscere della terra il petrolio e il gas naturale che ben conosciamo. Quella volta per la natura sono stati necessari milioni di anni ed enormi pressioni che hanno sviluppato temperature elevatissime. Ma all’Eni hanno imparato a replicare l’intero processo in due o tre ore a temperature di soli 250-310 °C. E per giunta senza dover prima eliminare l’acqua!

Il processo prende il nome di termoliquefazione e permette di trasformare in bio-olio la frazione umida dei rifiuti solidi urbani (in altre parole: il contenuto del cassonetto dell’umido, che spesso chiamiamo impropriamente “dell’organico”). Il bio-olio prodotto si può impiegare direttamente come olio combustibile oppure si può inviare a un successivo stadio di raffinazione nella nuova Bioraffineria di Gela si ottengono così biocarburanti da usare nelle nostre automobili.

Detto in altri termini, meno tecnici e per la semplificazione i miei colleghi mi perdoneranno, i principali vantaggi del processo sviluppato a Novara sono molteplici. Innanzitutto (e non è banale) si usa come materia prima una materia di scarto per la quale esiste già una filiera di raccolta, offrendo al contempo una soluzione alternativa e virtuosa alla gestione dei rifiuti/fanghi delle aree urbane; si tratta la biomassa umida così com’è evitando i costi per l’essiccamento caratteristici di tutti gli inceneritori (anche i più sofisticati, come Amager Bakke); sono sufficienti condizioni più blande rispetto ad altri processi termici di conversione come la gassificazione (800-1000 °C) o la pirolisi (400-500 °C). Inoltre si produce un bio-olio con elevato contenuto di carbonio ed elevato potere calorifico (circa 35 MJ/Kg) e la resa energetica è di oltre l’80%… Insomma, nettamente superiore rispetto alla valorizzazione dei rifiuti a biogas (50-60 %) ed agli inceneritori (10-30 %);

Dopo il primo impianto pilota, realizzato a Novara e in grado di trattare mezza tonnellata di rifiuti per volta, quest’anno è stato inaugurato un impianto dimostrativo molto più grande.

A Gela, accanto alla nuova Bioraffineria, è ora in funzione il primo impianto W2F al mondo che tratta rifiuti in continuo.

L’impianto – disegnato e realizzato sotto la supervisione dei ricercatori Eni di Novara – è in grado di trattare 700 Kg di rifiuti organici al giorno forniti dalla Società per la regolamentazione del servizio per la gestione rifiuti di Ragusa. Questi vengono trasformati in 70 litri di bio-olio.

Ma l’impianto è completamente integrato e prevede una valorizzazione per tutti i prodotti, oltre che del bio-olio. Le acque sono utilizzate per la produzione di biogas/biometano e quindi purificate in modo da poter essere utilizzate in agricoltura. Il residuo solido viene invece reso inerte recuperandone l’energia residua all’interno del processo stesso.

Infine, tutti i recuperi energetici sono “carbon neutral”. Cioè si produce anidride carbonica pari al carbonio presente nella biomassa di partenza senza che sia necessario aggiungerne altra proveniente da combustibili fossili.

Ma la ricerca non si ferma: ora a Novara ed a Gela si sta lavorando per l’ottimizzazione dell’impianto e per lo sviluppo intensivo dell’intero processo in vista di impianti sempre più grandi in grado di fare sparire i rifiuti organici di intere metropoli producendo biocarburanti, acqua e materiali da costruzione senza aumentare l’anidride carbonica in atmosfera.

Questa rivoluzionaria classe di impianti per la gestione dei rifiuti umidi può dare al nostro Paese un decisivo contributo per il raggiungimento degli obiettivi fissati dalla Direttiva Europea sulle fonti rinnovabili nei trasporti (RES), consentendo di ottenere un biocarburante avanzato da materie prime di scarto… E riprendendo la ormai celebre frase che usano i colleghi impegnati in questa ricerca: Come natura crea, ma molto più in fretta!

 

(Versione ampliata di un articolo pubblicato su eni.com)

Back To Top