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Vi spiego perché Trump picchia su Powell della Fed

Quali sono i veri motivi delle polemiche negli Stati Uniti tra governo e banca centrale. Fatti e approfondimenti tra cronaca e storia. L'approfondimento di Liturri

Non accenna a diminuire l’intensità dello scontro tra Donald Trump e il presidente della Fed Jerome Powell, sul tema della riduzione dei tassi di interesse.

Il primo non perde occasione per ribadire che il secondo dovrebbe dimettersi, perché rifiuta di ridurre i tassi. Il secondo, ancora mercoledì sera, ha insistito sul fatto che non ci siano evidenze sufficienti per farlo e ha rimandato qualsiasi decisione a settembre.

Nel frattempo, venerdì una serie di dati sulla relativa debolezza del mercato del lavoro hanno rilanciato la probabilità di due tagli entro fine anno, con la conseguenza di dimezzare il recupero del dollaro avvenuto in settimana e ridurre decisamente i rendimenti del Treasury decennale intorno al 4,20%, il minimo da un mese.

Ieri, la notizia delle dimissioni di un governatore della Federal Reserve, Adriana Kugler, nominata da Joe Biden e molto allineata a Powell, ha offerto il destro a Trump per attaccare nuovamente il Presidente della Fed.

Il livello dello scontro è comunque molto alto già da alcune settimane. L’immagine di Donald Trump e del Presidente della banca centrale Usa, Jerome Powell, entrambi con il caschetto bianco da cantiere, è già diventata uno dei momenti di maggiore potenza scenica del secondo mandato presidenziale di Trump.

Powell che scuote la testa mentre Trump parla dei conti della ristrutturazione della sede della Fed per evidenziare lo sforamento dei costi e il loro astronomico livello, con Trump che sfodera un foglietto con i numeri poi contestati da Powell, è una scena che descrive meglio di qualsiasi altra prolissa spiegazione, la dimensione dello scontro in atto tra due tra i maggiori poteri della più grande potenza economica mondiale. Con potenziali e notevoli effetti anche sull’economia europea.

Perché qui la questione non è affatto personale. Infatti a maggio 2026 Powell terminerà il suo incarico e Trump dovrà nominare il suo sostituto. Quindi pochi mesi di attesa non sembrano essere un problema, in confronto alla difficoltà, anche legale, di mandare via Powell in anticipo. Nemmeno ha rilevanza primaria la vicenda che ha portato Trump, alcuni suoi collaboratori e due senatori a farsi accompagnare da Powell per un inusuale giro dei lavori di ristrutturazione di due edifici degli anni ’30. Un progetto con un budget di 1,9 miliardi di dollari nel 2023, già decollati a 2,5 miliardi quest’anno e probabilmente destinato a sforare i 3 miliardi alla fine dei lavori. Comunque una goccia nell’oceano del bilancio federale e, in ogni caso, a carico del bilancio della stessa Fed. Un intervento immobiliare di proporzioni esagerate che ha portato un economista Usa a compararlo alla reggia di Versailles o al complesso di Capitol Hill che ospita il Congresso (rispettivamente 3 e 2,1 miliardi in dollari attuali).

Ma di cui a Trump interessa poco o nulla e che sta usando in modo palesemente strumentale. Anche se Powell rischia qualcosa solo si scoprisse che ha mentito nella sua deposizione davanti al Congresso. Infatti, potrebbe essere destituito dall’incarico solo per “giusta causa” e non per le scelte di politica monetaria, come ha ribadito la Corte Suprema.

Al centro della scena c’è ormai da mesi la richiesta di Trump di tagliare i tassi di interesse e la prudenza con cui Powell ha deciso di (non) muoversi, soprattutto dopo l’annuncio dei dazi del 2 aprile e l’elevata conseguente volatilità dei mercati durata qualche settimana. Questa disputa rimanda direttamente alla madre di tutte le battaglie: il dogma dell’indipendenza della banca centrale.

È davvero necessario affidare l’obiettivo della stabilità dei prezzi (con tutti gli strumenti che servono a quello scopo) ad un’istituzione che non risponde delle proprie azioni davanti agli elettori? È questa la linea di faglia su cui si sta combattendo. Tutto il resto è rumore di fondo e tattiche negoziali diversive che Trump utilizza spesso, aprendo molteplici fronti di attacco, per non dare all’avversario punti di riferimento e consentirgli risposte puntuali. Gli sposta sempre il bersaglio.

Dopo il taglio di un punto eseguito tra settembre e dicembre 2024 – criticato da molti perché ritenuto affrettato e un favore alla corsa alla presidenza di Kamala Harris – e una ipotesi di taglio a marzo poi sfumata, da allora la posizione ufficiale di Powell è quella di attendere il completo manifestarsi degli effetti sui prezzi dei dazi all’importazione. Ad oggi, l’inflazione è al 2,7% (oltre l’obiettivo del 2%, ma relativamente stabile) e anche la variazione dei prezzi alla produzione a giugno è stata nulla ed inferiore alle attese. Nel frattempo, a giugno le entrate per i dazi sono quadruplicate rispetto a giugno 2024 e nei primi nove mesi dell’anno fiscale hanno raggiunto 113 miliardi di dollari, il doppio rispetto all’anno precedente. Sembra che, nel peggiore dei casi, l’effetto inflazionistico dei dazi sarà un aggiustamento una-tantum, senza innescare una spirale.

La pressione di Trump su Powell sta montando ormai da diverse settimane, con la consueta tecnica usata dal tycoon. Ha cominciato a definirlo “Signor troppo tardi”, poi a giugno è passato a “idiota” e, da ultimo “zucca vuota”. A metà luglio ha ammesso di averne discusso la rimozione dall’incarico con alcuni parlamentari repubblicani. Per poi negare di avere intenzione di farlo e scegliere di mandare avanti il suo Segretario al Tesoro, Scott Bessent, per affermare che anche la “Fed e l’efficacia della sua azione vanno esaminati a fondo”. Tra le accuse, c’è quella di boicottare il bilancio federale, perché ogni punto di taglio di tassi che Powell rifiuta di fare, costa ogni anno 360 miliardi di dollari di maggiori interessi per il rifinanziamento del debito. E Trump ritiene che Powell debba tagliare almeno tre punti, rispetto all’attuale intervallo di 4,25-4,50%.

Un livello che probabilmente nemmeno Trump si augura. Perché innescherebbe uno scenario da “repressione finanziaria”, con i tassi reali a breve che scenderebbero ampiamente in territorio negativo, tassi a medio-lungo termine ancora più alti (perché gli investitori “prezzano” un’inflazione più alta) e una surrettizia diminuzione del valore reale del debito pubblico. Ma sono tutte conseguenze potenzialmente destabilizzanti quando sei il maggior emittente mondiale di debito governativo con 36.000 miliardi di dollari di titoli in circolazione che vengono considerati bene rifugio per eccellenza. Trump non può non sapere che la Fed controlla solo la parte di breve termine della curva dei tassi e che i tassi sulle scadenze di medio-lungo sono determinati dal mercato.

E il mercato potrebbe reagire molto male di fronte a serie prospettive inflazionistiche innescate da tassi reali a breve in territorio negativo.

È pur vero che la storia ha più volte dimostrato che l’indipendenza della banca centrale è solo un feticcio e che la cosiddetta “dominanza fiscale” – gli obiettivi e le conseguenze delle scelte di politica fiscale dei governi sulle decisioni delle banche centrali – ha più volte costretto queste ultime a comprare massicciamente debito pubblico e quindi a piegarsi alle scelte dei governi. Come accaduto in parte col Quantitative Easing nello scorso decennio e, soprattutto, col debito emesso per la crisi pandemica tra 2020 e 2022. Sono state le scelte di politica fiscale dei governi per fronteggiare la recessione da Covid, a “obbligare” le banche centrali a imbottirsi di titoli governativi, emettendo, “dal nulla”, passività di banca centrale.

Ma a prescindere dal merito è il metodo che conta. Trump sta mettendo in discussione il fatto che l’obiettivo della stabilità dei prezzi (e della massima occupazione, perché la Fed ha un duplice mandato) sia demandato esclusivamente alla Fed che agisce in totale autonomia e riferisce solo al Congresso, che ha stabilito quegli obiettivi. La scelta degli strumenti (tassi, operazioni di mercato aperto, ecc…) e il loro dosaggio è insindacabile a livello politico.

Questo particolare assetto si giustifica – secondo la vulgata dominante da almeno 50 anni – con un altro dogma, secondo il quale i governi sarebbero troppo propensi a tenere i tassi bassi e fare deficit pubblico finanziato dalla banca centrale, con conseguente generazione di bolle inflazionistiche, compromettendo così il bene prezioso della stabilità dei prezzi. Infatti, la ricorrente necessità del consenso elettorale di breve termine impedirebbe a chi governa di fare scelte spesso impopolari, come l’aumento dei tassi e la conseguente recessione e disoccupazione. Il caso di scuola è quello del Presidente della Fed negli anni ’80, Paul Volcker, che aumentò i tassi fino al 19% con la disoccupazione che raggiunse il picco massimo del 10,8%. Ma poi Ronald Reagan, infastidita dalla sua eccessiva indipendenza, lo sostituì con un più flessibile Alan Greenspan.

Ma non si può ignorare che sono passati quasi 50 anni dal famoso “divorzio” Tesoro-Bankitalia (addirittura è dal 1951 che la Fed non è più subordinata al Dipartimento del Tesoro, col vincolo di finanziare il debito pubblico e tenere i tassi bassi) e che forse molte dinamiche possono essere cambiate e che certi assetti istituzionali possono essere almeno ridiscussi.

La storia degli Usa è costellata di continui scontri tra l’amministrazione in carica e la Fed. Da Harry Truman a Lyndon Johnson a Richard Nixon a Ronald Reagan, gli scontri sono stati numerosi. Tra tutti si ricorda proprio quello tra Nixon e Arthur Burns, a cui, per aver ceduto alle pressioni di Nixon per ridurre i tassi, si attribuisce l’origine della grande inflazione degli anni ’70.

Però non si può fingere di ignorare che Powell e la Bce hanno entrambi una recente storia di previsioni sbagliate e azioni rivelatesi inefficaci o peggio dannose. Non sono degli infallibili Ottimati. Ma è un dibattito che stenta a decollare, come accade spesso quando si mettono in dubbio i dogmi, perché si citano le esperienze di Turchia e Argentina, senza cogliere le differenze di scala e tempi.

Però, non proprio sottotraccia, negli Usa il dibattito c’è e sul Financial Times ha ricevuto adeguato rilievo Curtis Yarvin, blogger e influente consulente politico di Elon Musk, molto letto e ascoltato nel “cerchio magico” di Trump, che ha parlato recentemente di fusione tra Fed e Tesoro. Un evento che ridisegnerebbe gli equilibri finanziari mondiali e ci porta a credere che il confronto tra Trump-Powell sia solo la prima scaramuccia di una lunga battaglia dall’esito totalmente incerto.

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