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Quota 100

Vi spiego perché l’Inpgi confluirà nell’Inps (e perché le Grandi Firme Giornalistiche non ve lo dicono)

Caso Inpgi nell'Inps. I giornalisti sono una delle categorie in cui è più evidente e marcata quella contraddizione giovani/anziani che tanto li appassiona nei loro articoli (dedicati ad altri settori). L'analisi di Giuliano Cazzola

 

L’incorporazione dell’Inpgi nell’Inps – come previsto dal ddl di bilancio 2022 – è una vendetta del destino.

Le ‘’firme’’ dei quotidiani al pari dei conduttori dei talk show hanno attaccato i trattamenti pensionistici di tutti gli altri, se la sono presa con i vitalizi, le pensioni d’oro, i privilegi del calcolo retributivo; hanno imbastito campagne implacabili denominate come i fascicoli di una procura: affittopoli, svendopoli e quant’altro riguardasse la gestione del patrimonio immobiliare degli Istituti previdenziali.

Hanno accusato l’Inps di inefficienza, quando nel corso della crisi sanitaria, l’ente di via Ciro il Grande si è trovato da un giorno all’altro a dover moltiplicare il numero delle prestazioni in conseguenza dei provvedimenti disposti per l’emergenza.

Prendiamo un solo dato molto significativo: l’erogazione della Cig. Mediamente in via normale, nel corso di un anno sono interessati a questa prestazione – non in via continuativa – 800mila lavoratori; durante la pandemia si è arrivati a 6,5 milioni. Il bello è che le notizie riguardanti la previdenza dei giornalisti (come del resto quelle relative ai loro contratti) sono sempre state oscurate e sottratte all’attenzione dell’opinione pubblica.

Se qualcuno come il sottoscritto si azzardava a parlarne in un dibattito televisivo, per difendersi dalla requisitoria del censore di turno (ci sono giornalisti che hanno fatto delle fortune pubblicando saggi in cui venivano messe alla berlina, con tanto di nome e cognome, le pensioni percepite da alcuni personaggi pubblici) la risposta era la solita: “Ma l’Inpgi è una cassa privata”.

Mi piacerebbe vedere la faccia di questi ‘’Soloni’’ se, di fronte al rischio di bancarotta dell’Istituto Giovanni Amendola, il governo (dopo tanti interventi di copertura di veri e propri prepensionamenti d’annata ad un’età inferiore ai 60 anni e a carico dapprima della fiscalità generale, poi dell’Istituto) avesse risposto: “Ma che cosa volete da me? Quando avete preteso la ‘’privatizzazione’’ dell’Inpgi, l’impegno era che vi sareste arrangiati’’. Proprio così.

Perché nel 1993 a tirare la volata per la ‘’privatizzazione’’ (la gestione della previdenza obbligatoria, ivi comprese le regole delle prestazioni e della contribuzione, affidata all’autonomia, vigilata, di organi eletti dalle categorie) furono appunto l’Inpgi (con la potenza di fuoco della stampa) e l’Inpdai (lo storico ente previdenziale dei dirigenti industriali).

Al dunque quest’ultimo Istituto, dopo il varo del decreto attuativo nel 1994, non fu in grado di rispondere ai requisiti richiesti per poter cambiare regime.

Poi anni dopo si accasò nell’Inps, portando seco il suo debito. L’Inpgi invece riuscì nell’intento entrando a far parte, unico ente del lavoro dipendente, del mondo delle casse dei liberi professionisti, poi associati nella Adeep.

Nobless oblige, in stretta alleanza con la Fnsi il gruppo di potere che si è tramandato la gestione dell’Inpgi ha sempre rifiutato con sdegno il salvagente dell’Inps, in nome della ‘’libertà di stampa’’.

Mesi or sono il presidente Giuseppe Giulietti ha persino scritto una lettera aperta di questo tenore al presidente della Repubblica. Poi evidentemente “più che il dolor potè il digiuno’’ o almeno la prospettiva del digiuno.

Tallonato dalle leggi di bilancio, l’Inpgi ha adottato, nel tempo, alcune misure di contenimento della spesa; ma l’obiettivo su cui puntava era quello di allargare per legge la base contributiva, inglobando i 17mila “comunicatori professionali” ora iscritti all’Inps.

Non sarebbe stata la prima volta che siffatte operazioni vengono effettuate. Per l’Inps la perdita era sopportabile. Ma di solito queste operazioni si sottopongono all’opzione degli interessati. Non vi sarebbe mai stato un numero consistente di “comunicatori” disposto a passare all’Inpgi con i tempi che corrono. Anche perché tra pochi anni sarebbero tornati, insieme a tutti gli altri, laddove erano partiti: all’Inps, già “fabbrica”, ora “ospedale” delle pensioni.

I giornalisti sono stati gli ultimi a prevedere l’applicazione – pro rata – del regime contributivo. Così si portano nel Fondo lavoratori dipendenti presso l’Inps e fino al 30 giugno 2022 il calcolo ai fini della pensione delle regole Inpgi, mentre quelle del Fpld si applicheranno pro rata dal successivo 1° luglio.

Lo stesso principio si applica anche per altri aspetti come il massimale stabilito nel sistema contributivo dalla riforma del 1995.

L’incorporazione e le salvaguardie previste hanno sollevato una dura obiezione via twitter da Tito Boeri che si è spinto fino a ipotizzare un taglio delle prestazioni perché “non è tollerabile – ad avviso dell’ex presidente dell’Inps – che scelte sconsiderate ricadano una volta di più sulle spalle dei giovani”.

Boeri non è nuovo nel proporre soluzioni drastiche e a volte è riuscito a farle passare. In questo caso l’autonomia decisionale della categoria ne aggrava la responsabilità perché è visibile la difesa a oltranza di della figura del giornalista anziano rispetto a chi ha iniziato da poco la professione.

Come sempre accade i dissesti previdenziali dipendono solo in parte dall’ostinazione con cui si difendono normative ormai insostenibili; la causa di natura strutturale – per la condizione dei giornalisti, il loro trattamento retributivo e previdenziale – ha profonde radici nelle trasformazioni e negli smottamenti del mercato del lavoro dell’informazione dipendente anche dagli effetti della innovazione tecnologica che ha investito prima i poligrafici poi i giornalisti.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’Inpgi, lo abbiamo già ricordato, è stato l’ultimo ente ad adottare il calcolo contributivo: pro rata e per intero per i nuovi assunti dal 2017. Sull’Istituto è piovuta, per accordo tra la Fieg e la Fnsi, la tegola (avvolta da un muro di silenzio) dell’ex fissa trasformata in una sorta di indennità di mancato preavviso in caso di risoluzione del rapporto di lavoro da parte dell’azienda e nei casi di dimissioni del giornalista con 55 anni di età e 10 anni di anzianità aziendale, ovvero con una anzianità aziendale superiore a 15 anni, a prescindere dall’età anagrafica. Ciò fino a quando non è stata trovata una soluzione transattiva.

Che il settore sia in crisi – da tempo – è cosa nota per quanto riguarda il crollo delle copie vendute, le perdite di fatturato e la diminuzione degli occupati, nonché il nuovo modo di comunicare. Ma il punto cruciale, in materia di previdenza dei giornalisti, è un altro: i pensionati e quelli prossimi alla pensione appartengono ad un mondo diverso da quello dei contribuenti. Ma sono riusciti a portare nel nuovo mondo lo status che avevano nel vecchio.

In nessun altro settore le tecnologie hanno determinato una cesura tanto netta tra chi, in un sistema a finanziamento a ripartizione, riceve la pensione e chi paga i contributi. Alcuni anni or sono, l’associazione LSDI (Libertà di stampa diritto all’informazione) in un Rapporto sul giornalismo in Italia, metteva in evidenza la crisi della professione “con la crescita intensa del lavoro autonomo sottopagato, diventato una grande sacca di precariato, come dimostra, tra l’altro, il fatto che il reddito medio dei giornalisti dipendenti è superiore di 5,4 volte a quello della “libera professione” (60mila euro lordi annui contro 11mila) e il fatto che otto lavoratori autonomi su dieci (l’82,7%) dichiarano redditi inferiori a 10mila euro all’anno’’.

In sostanza, dall’inizio del secolo la quota di lavoro “autonomo” è aumentata di dieci punti. I giornalisti sono una delle categorie in cui è più evidente e marcata quella contraddizione giovani/anziani che tanto li appassiona nei loro articoli (dedicati ad altri settori).

Mentre i trattamenti pensionistici erogati o da erogare nei prossimi anni hanno radici nelle retribuzioni della ‘’Belle époque’’ del giornalismo, quelle degli attuali contribuenti si barcamenano all’interno di un mercato del lavoro sempre più destrutturato.

Basti pensare che l’importo della pensione media dei giornalisti (di antico conio) è al terzo posto (67mila euro nel 2019 pari al 74% del reddito medio) nella scala del valore dopo i notai e i professori universitari.

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