Le cose accadono raramente per caso. Così, la designazione di Emanuele Orsini a presidente di Confindustria, imprevista solo da osservatori distratti o interessati, si spiega con i cambiamenti intervenuti nella geografia della economia industriale in Italia. Da tempo, non solo si è esaurito il ruolo guida del vecchio triangolo industriale ma si è ridotta anche l’influenza di Milano sui corpi sociali della rappresentanza di interessi, con la sola eccezione del commercio.
La scomparsa (o quasi) dell’industria nella area metropolitana si è accompagnata con la crescita della dimensione finanziaria. E in un Paese ove sopravvivono forti correnti ostili all’impresa, dopo anni di ubriacatura ideologica in Europa, le manifatture chiedono di essere rappresentate senza concessioni al “politicamente corretto” o all’opportunismo politico.
Orsini e Gozzi, saldamente insieme nella fase finale della competizione, hanno così unito la provincia lombarda, il nord-est, la via Emilia, includendo un mezzogiorno ove non mancano industrie proiettate al mercato globale.
Ora non mancano i consigli interessati dei perdenti. I vincitori hanno il compito di ricostruire l’unità interna non riproducendo la melassa autoreferenziale ma risvegliando la genuina funzione sindacale che fu dei presidenti migliori.
Mettendo in campo non solo rivendicazioni (e ce ne sono da fare) ma anche idee per un possibile futuro hi-tech, per la infrastrutturazione dei territori, per il coinvolgimento dei lavoratori nei nuovi processi di produzione, per relazioni nuove con la leva finanziaria.
Il confronto con le istituzioni non potrà più oscillare tra il servo encomio e il calcio dell’asino ma dovrà dedicarsi in primo luogo, dopo il voto europeo, a riformare l’agenda dell’Unione in favore della competitività e a creare un clima interno per cui “lo Stato non disturbi chi ha voglia di fare”.
Maurizio Sacconi
(Questo commento è stato pubblicato anche sul Quotidiano nazionale)