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Vi spiego il flop del Tesoro in Mps

Che cosa ha fatto e non ha fatto il Tesoro in Mps. L'analisi di Fabio Pavesi, giornalista esperto di finanza già al Sole 24 Ore, per il Fatto Quotidiano

 

Per Mps il capolinea si avvicina sempre più. A meno di improbabili e fantasiose soluzioni dell’ultimo minuto, lo spezzatino delle attività, da suddividere tra più banche sarà il destino della banca toscana. Solo UniCredit avrebbe le dimensioni appropriate per prendersi la quarta banca del Paese con suo attivo di 150 miliardi e oltre 20mila dipendenti. Ma il nuovo amministratore delegato, Andrea Orcel non ha nessuna intenzione di accollarsi l’intera banca. Anche con tutte le doti fiscali e non che il Governo ha proposto negli ultimi mesi, il boccone è troppo grande e pericoloso da gestire.

Qualsiasi agevolazione verrebbe vanificata dalle incertezze sui 10 miliardi di passività legate alle cause legali che pesano su Siena. E poi Orcel se vuole una fusione in Italia guarda a banche sane come BancoBpm. Il Tesoro che, dall’estate del 2017, possiede il 64% della banca toscana è di fatto in un cul de sac. Deve necessariamente uscire dal capitale entro fine anno, ma in tutto questo tempo nessun compratore vero si è mai palesato. E non è un caso. Sotto tiro è la gestione della banca da parte dello Stato che si è rivelato un flop colossale, e che al di là della zavorra dei contenziosi legali, poco o nulla ha fatto per rendere appetibile Mps. I numeri infatti della gestione pubblica sono disastrosi. Si è badato a pulire la banca dal macigno delle sofferenze che, a fine del 2017, pesavano per oltre il 16% (quelle nette) degli impieghi. La pulizia con le cessioni dei crediti malati è andata alla fine in porto. Certo non senza sacrifici dato che quelle cessioni hanno comportato perdite per quasi 5 miliardi di euro dal 2017 a fine 2020.

Ma nulla è stato fatto sulla gestione operativa della banca. Anzi. Sotto la gestione pubblica, infatti, la banca senese ha perso per strada la bellezza di 1,1 miliardi di ricavi. Nel 2017 Mps chiuse il bilancio con 4 miliardi di ricavi; a fine 2020 i ricavi si sono fermati a solo 2,9 miliardi. Perdere quasi il 30% delle entrate è un record assoluto nell’intero sistema bancario italiano. Nessuna banca ha visto declinare così potentemente la sua capacità di fare incassi. Quel taglio secco di quasi il 30% è più del doppio della media del declino dei ricavi delle altre banche italiane. Il rapporto tra costi e ricavi che era già alto nel 2017, pari al 63%, è salito al 75% di fine 2020. Le continue perdite hanno visto il capitale della banca scendere dai 10,4 miliardi di 4 anni fa ai 5,7 miliardi dello scorso anno. La gestione da parte dei vertici dell’istituto, prima con il duo Stefania Bariatti/Marco Morelli, poi con Patrizia Grieco e Guido Bastianini non è riuscita a risollevare l’agonia decennale della banca toscana.

E che il fallimento sia totale lo dice quel piano industriale 2017-2021, predisposto all’epoca, e che stimava per il 2021 ricavi della banca a 4,3 miliardi, un utile netto addirittura di 1,2 miliardi e un ritorno sul capitale del 10%. Il 2020 si è chiuso lontano anni luce: ricavi a 2,9 miliardi, perdita di 1,69 miliardi e Roe sottozero. Il nuovo piano 2021-2025 farà la stessa fine del vecchio? Intanto prevede per il 2021 di chiudere ancora in perdita per oltre mezzo miliardo. Con il primo utile significativo solo nel 2023 e con un Roe solo del 3,7%, ben lontano dal miraggio del 10% del vecchio piano. E i ricavi che dovevano arrivare nel 2021 a 4,3 miliardi nel vecchio piano si fermeranno, se tutto andrà per il meglio, a solo 3,2 miliardi ma per questo occorrerà attendere il 2025. Con queste prospettive e dopo aver completamente fallito il primo piano del rilancio pubblico, ben si comprende come l’appetibilità della banca per un eventuale compratore sia ridotta a zero.

Numeri da mera sopravvivenza quindi. Non solo ma molti attori in campo nella partita del rilancio fallito hanno giocato un doppio ruolo. A partire dalla Fondazione Mps, una volta padrone con oltre il 50% del capitale della banca, oggi con un peso del tutto residuale. In questi giorni il presidente della Fondazione Mps, Carlo Rossi, insieme al sindaco di Siena Luigi De Mossi chiedono a gran voce risposte dal governo, accusandolo di attendismo. Ma è la stessa Fondazione che nell’estate del 2020 promosse una causa legale da 3,8 miliardi di euro. Danno chiesto che si è sommato agli oltre 5 miliardi di petitum chiesti da azionisti e obbligazionisti della banca.

Un’iniziativa quella della Fondazione che ha ulteriormente aggravato il peso su Mps allontanando ancor più possibili compratori. Tra l’altro una causa che ha del risibile. La Fondazione chiede i danni per le perdite subite per la sciagurata acquisizione di AntonVeneta e per i due aumenti di capitale bruciati successivamente. Già ma dov’era la Fondazione in quegli anni? Non certo un normale socio della Banca dato che in quegli anni era il socio di controllo della banca e il suo Cda ha avvallato tutte le iniziative a partire dalla conquista di AntonVeneta da parte dell’allora amministratore delegato Giuseppe Mussari. Il paradosso è che prima da socio di controllo ha festeggiato la grande espansione. Ora chiede i danni alla banca.

Quel macigno di 3,8 miliardi dovrebbe ridimensionarsi a cifre ben più piccole trasformandosi in un’ eventuale transazione. Del resto la Fondazione ha sempre transato altre cause, con Nomura in particolare, per poche decine di milioni rispetto alle richieste iniziali. Qui il Tesoro dovrebbe accelerare un’intesa con la Fondazione per togliere di mezzo lo spauracchio dimezzando il peso del contenzioso. Anche qui non pare che si siano fatti avanti. E così quella che era la terza banca italiana, chiuderà il suo declino scomparendo dai radar. Questo dopo che i risparmiatori e i contribuenti hanno visto bruciare, tra aumenti di capitale, obbligazioni azzerate, interventi di Amco per i crediti malati e quello dello Stato ben oltre 20 miliardi di euro. Un falò che primeggia con quello di Alitalia.

 

Articolo pubblicato su ilfattoquotidiano.it

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