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Confindustria Carlo Bonomi

Vi spiego i motivi della capriola confindustriale di Bonomi sul Pnrr

Il presidente di Confindustria, Carlo Bonomi, dopo aver tanto elogiato il Pnrr ora dice che "non va nella giusta direzione". Ecco i perché della giravolta. Il commento di Giuseppe Liturri

 

Non va nella giusta direzione, lo abbiamo sempre sostenuto”. Questa la sintesi dell’intervento di ieri del presidente di Confindustria Carlo Bonomi a proposito del Pnrr. Ma come? Proprio ieri che il ministro Raffaele Fitto ha annunciato il raggiungimento – almeno a parole – di un compromesso con la Commissione sulla terza e quarta rata del Pnrr, Confindustria si mette di traverso e gli guasta la festa?

Bonomi ha sostenuto che “diventa difficile accollare dei problemi a questo Governo perché questo piano è sbagliato dall’origine. Noi lo avevamo sempre detto e ricordo gli interventi che feci con l’allora governo Conte dicendo che non andava nella giusta direzione. Purtroppo i dati ci stanno dando ragione perché questo piano doveva mirare ad essere un boost aggiuntivo agli investimenti pubblici che mobilitasse peraltro anche quelli privati e così non è stato”.

Non esattamente le stesse parole pronunciate il 3 maggio 2021 – a Pnrr appena inviato a Bruxelles da Draghi – quando disse a Lucia Annunziata che “la presentazione del Pnrr da parte del Presidente del Consiglio ci fornisce finalmente una visione chiara del Paese, quella che noi chiediamo da tempo”.

Forse, da allora, la vista di Bonomi è peggiorata e ciò che appariva chiaro ora è sfocato.

Oppure la risposta sta in due numeri: “4.0”. Dietro questi due numeri si nasconde una delle leggi più efficaci per stimolare gli investimenti privati in impianti e macchinari ad elevato contenuto digitale. Il primo prototipo risale al 2017, a cavallo dei governi Renzi e Gentiloni e poi progressivamente modificata fino ad assumere la forma di un generoso contributo a fondo perduto erogato come credito d’imposta del 40% (aumentato al 50% nel periodo post lockdown) che le imprese hanno ricevuto per gli acquisti di impianti e macchinari ad elevata automazione, oltre che per software industriali e gestionali. Una vera e propria rivoluzione che ha consentito alle imprese italiane un importante avanzamento tecnologico a costi decisamente contenuti.

A partire da febbraio 2021 (data del regolamento 241 che disciplina il Recovery Fund) sono state considerate finanziabili dal Pnrr molte voci di spesa già finanziate con fondi nazionali – tra cui proprio le leggi per la transizione 4.0 ed il superbonus per l’edilizia – che hanno trovato quindi nuova linfa. Non a caso, i fondi per la transizione 4.0 sono stati tra i pochi fondi Ue ad essere stati spesi celermente, come certificato anche dalla Corte dei Conti. Ma ora quella linfa si è però esaurita, infatti da gennaio 2023 il credito d’imposta per la transizione 4.0 è scesa al 20%. Con evidente disappunto per le imprese che ormai si erano abituate a ricevere tra il 40% ed il 50%.

Quello che il Pnrr poteva dare alla transizione 4.0, l’ha dato. Ora bisogna spendere i soldi in tutto il resto della fuffa green e social che ci ha imposto Bruxelles, con le sue percentuali minime uguali per tutti i Paesi.

Quando negli ultimi mesi è apparso chiaro a tutti, ciò che era evidente da tempo a chi si era sobbarcato la fatica di studiarsi le carte del Recovery Fund per tempo, e cioè la irrealizzabilità di numerosi obiettivi e traguardi, tra i 528 fissati da Mario Draghi ereditando il libro dei sogni di Giuseppe Conte, allora Bonomi è tornato alla carica.

Con un ragionamento semplice: visto che siamo stati così rapidi ed efficaci nell’utilizzo dei fondi del Pnrr, datecene altri e rifinanziate la transizione 4.0. In effetti lo strumento del credito d’imposta alle imprese, se ben mirato, è rapido, efficace e poco costoso per la burocrazia.

Insomma, per farla breve Bonomi batte cassa per i suoi associati che sono rimasti a secco o quasi, solo che sta male dirlo ad alta voce ed allora “scopre”, novello San Paolo fulminato sulla via di Damasco, che il Pnrr non va nella giusta direzione.

Ma la direzione è sempre quella, solo che dalla sua stazione è già passato e vorrebbe che passasse di nuovo.

Basta dirlo, perché in fondo non è nemmeno una cattiva idea, anziché finanziare i sogni nel cassetto di qualche funzionario di Bruxelles, che però due anni fa – sotto l’aureola di Draghi – fornivano “una visione chiara del Paese”.

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