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Mercato Lavoro

Vi racconto numeri e deliri sul mercato del lavoro

Che cosa succede nel mercato del lavoro a Milano? Il commento di Claudio Negro della Fondazione Kuliscioff

 

Soltanto sabato 4 le pagine milanesi del Corriere ci procuravano un brivido di soddisfazione ma al tempo stesso di apprensione informandoci che oltre 206.000 lavoratori dipendenti dell’area milanese si sono volontariamente dimessi dal proprio posto di lavoro negli ultimi 18 mesi.

Si tratta, dice il Corriere citando la CGIL milanese, in prevalenza di giovani, con buon livello professionale e ben inseriti in azienda, che cercano ambienti di lavoro più aperti sul piano delle relazioni, più capaci di valorizzare e premiare le competenze.

Bene, da un lato, perché significa che il mercato del lavoro milanese è aperto, fluido, offre a chi vuole impegnarsi opportunità di crescita professionale e retributiva (Milano come Parigi, Berlino o Stoccolma…?). Dall’altra parte preoccupante, perché questa fuga di professionalità verso l’alto lascia scoperte posizioni lavorative per le quali non è facile trovare rimpiazzi: un problema comunque generato dalla crescita, un problema da “paese ricco”.

Per la verità suscitano qualche riserva i numeri indicati nell’articolo: 206.000 dimissioni volontarie in 18 mesi, pari più o meno allo stesso numero di persone, perché questi dimissionari hanno maturato in azienda mediamente almeno un anno di anzianità, (e quindi è marginale il fenomeno della stessa persona che in 18 mesi si dimette due volte) su uno stock di occupati a tempo indeterminato che si aggira su 1 milione e 63 mila significa circa il 20%. Un dato sorprendente?

Non tanto quanto sembra suggerire l’articolo. Come si sa da molto tempo i contratti cosiddetti stabili hanno la tendenza a risolversi entro il primo anno di vita: i dati di Veneto Lavoro ci dicono che il 27% finiscono così, e di queste cessazioni il 55% avviene a causa di dimissioni del lavoratore.

AFOL Milano e Adapt ci confermano questa tendenza, documentando che circa il 30% dei contratti stabili finisce entro il primo anno di vita, inoltre il 50% dei casi su iniziativa del dipendente: sostanzialmente appare una costante consolidata da tempo il fatto che circa il 15% o poco più dei dipendenti a tempo indeterminato si dimettano entro il primo anno di vita del contratto.

Rispetto a questo dato il 20% sciorinato dall’articolo non pare poi così clamoroso: in realtà rispetta un lieve incremento segnalato anche a livello nazionale da Bankitalia, che registra un modesto 5% in più. Alcuni spiegano questo lieve aumento generalizzato (e per nulla peculiare dell’area milanese) come conseguenza di dimissioni già programmate ma congelate nel 2020 a causa ovviamente della situazione dell’economia e del mercato del lavoro. In ogni caso il dato delle dimissioni volontarie non segnala sostanziali novità rispetto a una realtà già nota da anni.

Un eccesso di entusiasmo comunicativo: capita…! Ma solo due giorni dopo le stesse pagine milanesi del Corriere cambiano registro, e con il magniloquente titolo “La fabbrica della povertà” ci illustrano con dolenti accenti dickensiani tutt’altra realtà, fatta di lavori miserabili, paghe da fame e arbitrio padronale. Milano non è più Stoccolma ma Mumbai!

Una denuncia importante e impegnativa, che merita di essere valutata con gli strumenti dell’analisi empirica piuttosto che quelli del gradimento del trailer. I dati abbondantemente citati nell’articolo sono piegati all’esigenza pubblicitaria e determinano un’immagine che, appunto, ha una natura soltanto pubblicitaria.

L’inesattezza principale è quella che riguarda le retribuzioni: secondo l’articolo il salario medio annuo di un operaio milanese è pari a 17.111 € annui. In realtà secondo il Centro Documentazione Job Pricing la retribuzione annua media di fatto (compresi quindi premi di risultato) è di 25.900 € per un posto di lavoro a tempo pieno. In particolare, per la Lombardia la cifra sale a 27.000 €. Come fare per abbassarlo fino a 17.000 €?

Semplice: facendo la media tra i tempi indeterminati full time e i part time e tempi determinati, ma senza dirlo. Così vien fuori un salario medio poverello, che viene implicitamente lasciato intendere sia quello percepito mediamente dagli operai.

Ma anche sul numero dei precari (lavoratori a termine) non c’è trasparenza in una tabella si afferma che siano 320.000 (nel 2019, con la precisazione che si tratta di persone che hanno svolto esclusivamente lavori a termine, escludendo così l’accomodante ipotesi che in realtà si possa anche trattare di contratti successivi attivati dalla stessa persona) ma in un’altra vicina ci si attesta su un più credibile 145.000 rispetto a 1.056.000 contratti stabili, che in effetti rappresenta un più credibile 13,7%.

I 440.000 part timer (di cui circa la metà già conteggiata tra i contratti a termine) hanno ovviamente salari proporzionati all’orario lavorativo, ma come frazione della media di 27.000 €, non dei finti 17.000. Incomprensibile poi la scheda che definisce in 150.000 i lavoratori “on demand”, sommando (correttamente) i 58.000 contratti intermittenti con 97.000 somministrati, che di intermittente non hanno nulla, caso mai sono in maggioranza a termine e probabilmente tra questi sono già stati conteggiati.

In definitiva: alla verifica empirica il quadro disegnato dall’articolo è largamente impreciso, confonde dati diversi e ove torna comodo li somma, è totalmente inattendibile e destinato con ogni evidenza a “forare lo schermo” con affermazioni infondate quanto chiassose.

Si vede che adesso l’informazione sui problemi del lavoro si fa così: acqua termale calda e poi doccia gelata. L’importante è ovviamente che il pubblico resti soddisfatto. Ma problemi veri, come quelli accennati nei due articoli citati, andrebbero affrontati con maggiore professionalità.

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