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Alluvione Emilia-romagna

Vi racconto l’alluvione del cemento in Emilia-Romagna

L'articolo di Emanuele Intrieri, ricercatore presso il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze. Membro del Centro di Competenza per il Rischio Idrogeologico del Dipartimento Nazionale della Protezione Civile

 

Il dibattito di questi giorni ha visto un gran numero di interventi, spesso di geologi e climatologi, che hanno delineato un quadro di quanto è avvenuto e sta avvenendo nell’Italia centrale, dopo le piogge dei giorni scorsi che tanti danni hanno causato soprattutto in Romagna.

Questi interventi sono per lo più concordi nel definire cause e possibili soluzioni di questi fenomeni, le stesse anticipate qualche giorno fa in un altro articolo proprio qui su Appunti.

Sembra scontato, ma non è detto che su temi complessi come le alluvioni, che coinvolgono scienza, politica, economia e società, ci sia una sostanziale convergenza di vedute.

Il problema è passare dalla teoria alla pratica.

Le parole chiave più ripetute sono “cambiamenti climatici” e “consumo del suolo”. La cifra dei prossimi decenni sarà l’estremizzazione degli eventi atmosferici: grande siccità alternata a intense precipitazioni, grande caldo alternato a periodi freddi anche fuori stagione.

È vero che 200 mm di pioggia in 48 ore nell’Emilia-Romagna si erano registrate anche in passato (come, ad esempio, nell’alluvione del 1996), ma eventi di questo tipo erano catalogati come piogge con un tempo di ritorno di 100 anni (cioè una volta per secolo) mentre da allora di anni ne sono passati meno di 30.
Non bastano due date per fare una statistica ma da ogni parte giungono conferme del fatto che le precipitazioni estreme stanno diventando sempre più comuni.

Ciò che prima capitava una volta ogni due generazioni (e quindi se ne perdeva la memoria) adesso può avvenire una o più volte nell’arco di una vita umana.

È per questo che la comunità scientifica ribadisce che dobbiamo abituarci a questi fenomeni. Ma questo non significa abituarsi alle tragedie che provocano, al contrario. Ed è qui che entra in gioco il secondo termine chiave, “consumo del suolo”.

Secondo i dati dell’Ispra, l’Emilia-Romagna si classifica al terzo posto in Italia per la quantità di territorio cementificato, con un’area impermeabilizzata che rappresenta circa il 9 per cento del suolo totale.

La terra impermeabile

Il consumo del suolo, che corrisponde con la cementificazione, è l’azione di coprire il terreno con strade, edifici e altre opere che di fatto lo impermeabilizzano (in inglese si dice “soil sealing”, sigillatura del suolo).

L’espansione urbana è una delle cause principali dell’aumento della frequenza e dell’intensità delle alluvioni, specialmente sul reticolo fluviale minore (cioè l’intreccio di torrenti, canali e piccoli fiumi), che infatti è quello che è stato messo sotto stress in questo maggio 2023.

L’acqua precipitata, quella che non evapora e non viene assorbita dalle piante (in calo a causa dell’urbanizzazione), non riesce a infiltrarsi nel terreno e invece scorre velocemente sulla superficie dove si convoglia nel corso d’acqua più vicino.

L’infiltrazione è un processo fondamentale non solo perché parte dell’acqua viene sequestrata e va a ricaricare le falde acquifere, ma anche perché la restante parte viene trattenuta e rilasciata lentamente, nel corso di giorni, settimane e mesi; che poi è il motivo per cui d’estate i fiumi più grandi hanno sempre un po’ di acqua: è quella piovuta mesi o anni prima. Altrimenti basterebbero alcune settimane senza pioggia per prosciugare completamente ogni fiume (come avviene per le cosiddette fiumare).

Se l’infiltrazione viene impedita, quest’acqua finisce tutta insieme molto rapidamente nel reticolo fluviale e provoca nei corsi d’acqua portate maggiori di quelle che si avevano prima della cementificazione.

Secondo i dati dell’Ispra, l’Emilia-Romagna si classifica al terzo posto in Italia per la quantità di territorio cementificato, con un’area impermeabilizzata che rappresenta circa il 9 per cento del suolo totale.

Questo valore è superiore alla media nazionale del 7,1 per cento, che di per sé è già molto elevata.

Inoltre, nel 2021, l’Emilia-Romagna ha registrato il terzo maggior incremento nel consumo di suolo, con oltre 658 ettari di territorio aggiuntivo che sono stati coperti da cemento. Questa cifra corrisponde al 10,4 per cento del consumo di suolo totale dell’Italia per quell’anno.

Bilanciare il cemento

Un approccio per contrastare il consumo di suolo è quello della cosiddetta invarianza idraulica, ossia in caso di nuove costruzioni prevedere una serie di interventi che facciano sì che le portate dei fiumi durante le piene non aumentino ma rimangano uguali a quelle che si avevano prima dell’impermeabilizzazione.

Nel 2012 la Commissione Europea ha pubblicato le Linee guida sulle migliori pratiche per limitare, mitigare o compensare il consumo di suolo che, oltre a suggerire contromisure, sottolineano anche come il suolo rappresenti un’importante risorsa da preservare e come la sua perdita abbia effetti negativi sul cambiamento climatico (perché il suolo è molto importante nella cattura dell’anidride carbonica dall’atmosfera), sulla biodiversità (perché i suoli sono ecosistemi ricchi e complessi), sull’agricoltura (perché si rimuove un terreno potenzialmente fertile che ha spesso impiegato moltissimo tempo per formarsi).

Tra gli interventi per mantenere l’invarianza idraulica (e in generale ridurre la probabilità di un’alluvione) un esempio sono le casse di espansione: parchi con aree depresse realizzati accanto a un fiume.

Quando c’è bel tempo, sono solitamente adibite a normali parchi pubblici, ma in caso di piena funzionano come il buco del “troppo-pieno” in un lavandino: se l’acqua del fiume sale sopra una certa soglia, anziché fuoriuscire per strada, finisce in questi bacini artificiali che diventano dei laghetti per 24-48 ore, il tempo necessario per far passare l’onda di piena e svuotarli in tempo, prima che possa arrivare una nuova precipitazione che li trovi al colmo.

Le casse di espansione ovviamente sono dimensionate rispetto a un determinato tempo di ritorno, cioè si fa un calcolo costi-benefici e si vede che non conviene costruire delle casse tali da contenere alluvioni talmente grandi da essere molto improbabili.

Non è questione di “se” ma di “quanto spesso”. Il problema è che la risposta a questa domanda l’avevamo imparata dopo decenni di dati sulle alluvioni del passato, ma con il cambio di paradigma imposto dal cambiamento climatico dobbiamo mettere tutto in discussione.

Altri interventi per mitigare l’effetto del consumo di suolo consistono nella compensazione. Se in un posto voglio costruire un edificio e quindi impermeabilizzare una certa superficie, in cambio dovrò rendere più permeabile il terreno da un’altra parte.

Nei contesti urbani, i danni causati dalle alluvioni possono essere approssimativamente valutati tra i 100 e i 1.000 euro per metro quadrato di area inondata.

Qualcosa si può fare

In certi paesi è possibile costruire dietro il pagamento di una tassa da versare per la tutela dell’ambiente. Un’altra soluzione consiste nell’implementare tecniche costruttive a minore impatto, come le cosiddette pavimentazioni drenanti, quei reticoli di cemento a volte utilizzati nei parcheggi che consentono all’erba di crescere all’interno degli spazi vuoti.

Anche il recupero di aree industriali abbandonate consente di realizzare nuove costruzioni senza dover consumare ulteriore suolo. Infine, aumentare la consapevolezza dei cittadini su questi temi è sempre il modo più economico rispetto ai benefici che porta.

Questi approcci non hanno tutti la stessa efficacia ma possono essere utilizzati in sinergia, anche se il loro effetto è maggiore sui corsi d’acqua più grandi.

La Regione Emilia-Romagna conosce e applica il principio dell’invarianza idraulica già dai primi anni 2000, imponendo delle restrizioni a chi costruisce in base alla grandezza dell’opera e a spese sue.
È possibile però che la regione erediti una situazione già in parte compromessa da decenni e in ogni caso le contromisure adottate non erano progettate per resistere a quelle portate che prima potevano rientrare in un rischio accettabile ma che oggi potrebbero essere diventate fin troppo frequenti.

Le condizioni di pianura sono poi particolarmente critiche soprattutto laddove si è tolto terreno agricolo in favore delle città.

Qui i canali, numerosissimi in Emilia-Romagna, erano dimensionati per portare acqua ai campi; tolti i campi, rimangono i canali circondati da case e con un consumo di suolo aumentato; il tutto aggravato dal cambiamento climatico.

Urbanizzare non significa solo aumentare la quantità d’acqua che scorre in superficie, ma anche aumentare l’esposizione: più le strutture sono di valore, maggiore sarà il danno subito. Nei contesti urbani, i danni causati dalle alluvioni possono essere approssimativamente valutati tra i 100 e i 1.000 euro per metro quadrato di area inondata.

È difficile pensare di evitare queste situazioni senza un radicale cambiamento della pianificazione urbanistica e della nostra consapevolezza dei rischi. Le zone colpite rientrano in quelle che i geologi chiamano, non a caso, pianure alluvionali.

Oggi in ambito scientifico non è più considerato corretto il termine di “disastro naturale”. La natura si limita a fare la natura. Il disastro è quello antropico, che avviene quando non riusciamo a adattarci e a trovare un equilibrio.

(Articolo pubblicato sul blog Appunti di Stefano Feltri)

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