Il reddito di cittadinanza (RdC) – come sostengono in tanti – è un ‘’competitor’’ delle aziende italiane per quanto riguarda l’assunzione di manodopera?
Non credo, in linea generale, a questa interpretazione del paradosso italiano del lavoro che c’è e che nessuno vuole. Ma il problema del lavoro rifiutato esiste ed è serio.
Non capita spesso che – in periodi di crisi prolungata fino a pronosticare un futuro prossimo ancora più incerto – il mercato del lavoro sia più in difficoltà sul versante dell’offerta che della domanda e che questa fuga venga addirittura decantata (la c.d. great resignation) come un processo di liberazione umana.
Sarebbe ora di avviare, tutti assieme, un’operazione verità perché la situazione è sul punto di divenire insostenibile.
Per quali motivi viene rifiutata tanta parte di quel lavoro che c’è? Si dice – la risposta facilona dei soliti sindacati – perché le retribuzioni sono troppo basse. Occorrerebbe, in proposito, ricordare che i lavoratori italiani sono coperti in misura maggiore dell’80% dalla contrattazione collettiva (il che li esimerebbe dall’introduzione dello smic), protagonisti della quale sono anche i sindacati.
Diversamente dal passato (ma occorre andare indietro di decenni i rinnovi dei contratti – in generale e soprattutto nei settori privati – sono divenuti un’operazione prettamente fisiologica, spesso senza neppure il ricorso ad azioni di sciopero, di un certo rilevo. Taluni rinnovi sono stati effettuati anche durante la fase acuta della pandemia. Proprio in questi giorni si tessono le lodi del rinnovo del contratto della chimica e farmaceutica, per le soluzioni innovative che sono state trovate anche a livello economico.
Anche la storia dei contratti pirata è sopravvalutata. Ben 353 CCNL su 933 (pari al 38%) sono stati sottoscritti da firmatari datoriali e sindacali non rappresentati al CNEL, ma tali contratti risultano applicati a 33 mila lavoratori su oltre 12 milioni (si tratta di circa lo 0,3%). Ciò mentre I 128 contratti collettivi sottoscritti da soggetti datoriali e sindacali rappresentati al CNEL, pari al 14% dei CCNL vigenti, riguardano poco più di 10,6 milioni di lavoratori, circa l’87% del totale dei lavoratori.
Certo, c’è un nuovo convitato di pietra: l’inflazione ha ridotto il potere d’acquisto delle retribuzioni, ma ammontano a decine di miliardi le risorse che il governo ha stanziato per il caro bollette e per misure di ristoro. Gli effetti dell’inflazione sono un problema serio da affrontare; ma non come propongono i sindacati; abrogando, cioè, il riferimento all’IPCA (per cui viene sterilizzata l’inflazione importata: come i maggiori costi dell’energia) proprio quando si stanno verificando quelle condizioni in conseguenza delle quali si era previsto l’applicazione di quell’indicatore.
Per farla breve, se si è pattuito un meccanismo specifico da utilizzare quando si presentano fenomeni inflativi indipendenti da motivi interni, non sembra una scelta intelligente impedirne l’applicazione proprio quando il problema diventa attuale.
Poi c’è un altro aspetto che meriterebbe una risposta: quando un lavoro viene rifiutato perché non è retribuito in modo adeguato verrebbe spontanea una domanda che non ho mai sentito fare: d’accordo, caro giovane, fai bene a non farti umiliare da una paga bassa (la cui misura è opinabile, considerato che, per i beneficiari del RdC è ritenuta congrua una offerta di lavoro, se retribuito con 858 euro mensili). Ma come riesci a condurre il tuo consueto stile di vita, rinunciando a quei pochi euro ‘’maledetti e subito’’?
Ecco, dove stanno i ‘’divanisti’’. In famiglia, magari privi del RdC perché il livello dell’ISEE del nucleo è più elevato della soglia prevista. Ed è in famiglia che ricevono vitto, alloggio, lavatura e stiratura (a Totò, in un celebre film, assicuravano anche l’imbiancatura, ma erano altri tempi); poi magari si aggiunge un ‘’argent de poche’’ non inferiore al RdC. Ovviamente, questa non è una regola generale, ma sono casi diffusi in una ‘’società signorile di massa’’ (copyright Luca Ricolfi).
Infine, c’è un ultimo aspetto da considerare a conferma che i beneficiari del RdC non possono rimpiazzare la manodopera che manca. Sui 3,4 milioni di percettori del RdC, circa un milione è ritenuto ‘’occupabile’’ e viene sottoposto al percorso del patto del lavoro. Sappiamo che questa è la parte del RdC che non ha funzionato, a causa del vizio palese che quella misura aveva: svolgere nel medesimo tempo una funzione di inclusione sociale (la lotta alla povertà), di politiche attive del lavoro (l’offerta di almeno tre occasioni di lavoro) e di contrasto ai rapporti precari (per quanto riguarda l’offerta di occupazioni stabili). Al di là delle gravi inadeguatezze del sistema di politiche attive, il vero motivo del fallimento dell’accesso al lavoro è un altro.
I beneficiari del RdC non sono occupati in primo luogo perché non sono occupabili; infatti, mancano, in larga prevalenza, di quei requisiti minimi di scolarizzazione, di rapporti sociali e di esperienze lavorative che li renderebbero idonei anche a mansioni non qualificate ma soggette comunque ad un’organizzazione e ad una comunità di lavoro. In proposito l’A.N.N.A, l’associazione dei navigator (i soli destinati a pagare, prima o poi, per l’errore del legislatore) ha pubblicato un’indagine molto articolata sulle caratteristiche sociali dei beneficiari.
Sullo stesso filone, anche la relazione della commissione ministeriale presieduta da Chiara Saraceno ha colto la questione cruciale del fallimento del RdC: ’’i beneficiari di RdC, anche quando teoricamente “occupabili” spesso non hanno una esperienza recente di lavoro ed hanno qualifiche molto basse. Inoltre, i settori in cui potrebbero trovare un’occupazione – edilizia, turismo, ristorazione, logistica – sono spesso caratterizzati da una forte stagionalità. I criteri attualmente utilizzati per definire congrua, e quindi non rifiutabile, un’offerta di lavoro non tengono conto adeguatamente di questi aspetti’’ mentre sarebbe prioritario favorire la costruzione di un’esperienza lavorativa. Pertanto, anche la qualità del lavoro che viene offerto dovrebbe considerare ‘’ almeno temporaneamente, congrui non solo contratti di lavoro che abbiano una durata minima non inferiore a tre mesi’’, ma anche quelli per un tempo più breve, purché non inferiori al mese, ‘’per incoraggiare persone spesso molto distanti dal mercato del lavoro ad iniziare ad entrarvi e fare esperienza’’.
Ecco perché – al di là degli acronimi – sarebbe opportuno ritornare alla logica e alle priorità del Rei. E fare dell’istituto riformato uno strumento di inclusione sociale: essere un cittadino conscio dei propri diritti e dotato di una formazione di base (la confidenza con le tecnologie è trasversale e necessaria in tutte le attività lavorative anche non qualificate) è la premessa per divenire anche un lavoratore. Se vogliamo tornare ai classici: si tratta di accompagnare la condizione dei sottoproletari alla dignità del proletariato.