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Verità e bugie su Nadef, spread e non solo

Che cosa si dice e che cosa non si dice sulla Nadef e non solo. L'analisi di Giuseppe Liturri

Non è un mistero che in Italia e a Bruxelles ci sia un partito trasversale che tifa “forza spread”. È già accaduto nell’autunno 2011, con gli esiti che tutti ricordiamo, ed ancora nell’autunno 2018. Sia pure con notevoli differenze rispetto a quei due episodi, in questi giorni ci risiamo. Il titolo apparso mercoledì sul quotidiano La Repubblica (“Manovra, sfida all’Europa”) offre un’immagine abbastanza nitida e esemplificativa della bagarre – creata ad arte per fini di lotta politica – che attende il governo nelle prossime settimane. La nota di aggiornamento al Def presentata mercoledì 27 è solo il primo passo di un cammino lungo il quale si scopriranno progressivamente le carte del governo sulla prossima legge di bilancio e culminerà nell’invio, il prossimo 15 ottobre, a Bruxelles del documento programmatico di bilancio.

Giovedì è stata giornata difficile sui mercati. La differenza di rendimento tra Btp e Bund sulla scadenza decennale ha sfiorato i 200 punti base, livello che non si vedeva da inizio maggio quando iniziò una lunga discesa fino al minimo intorno a 160, per poi chiudere a 195. Quando tutto sembrava pronto per un classico “venerdì nero”, invece il giorno dopo le Cassandre hanno dovuto battere in ritirata. Il rendimento del decennale italiano è tornato indietro intorno a 4,77%, dov’era mercoledì prima dell’annuncio dei numeri dalla Nadef, e lo spread è tornato intorno a 190.

Ma esattamente 12 mesi fa – all’indomani delle elezioni – lo spread era a circa 255 punti. Insomma, guardando le cose in prospettiva, siamo messi meglio rispetto a 12 mesi fa ma c’è qualcosa che inquieta gli investitori, soprattutto da un mese a questa parte. E non è la legge di bilancio italiana o francese. Si tratta invece dei nuovi venti di inflazione portati dal repentino aumento del prezzo del petrolio Brent e di altre materie prime i cui prezzi sono inflazionati dalla corsa agli acquisti innescata dal Green Deal. Per tale motivo stanno richiedendo un generalizzato aumento dei rendimenti agli obbligazionari governativi e, in tale contesto rialzista dei rendimenti e ribassista dei prezzi, il Btp è il veicolo ideale – per la sua liquidità e i suoi volumi scambiati – per assumere posizioni al ribasso. Ecco spiegato il “dazio” che il nostro titolo paga sugli omologhi titoli francesi e tedeschi.

Osservando i livelli assoluti, lo spread nell’ultimo mese è aumentato di circa 30 punti perché il rendimento del Btp decennale è salito di 50 punti circa da 4,25% a 4,75% mentre il Bund è salito solo di circa 20 punti da 2,65% a 2,85%.

Quindi, nel recente contesto di generalizzata tendenza al rialzo dei tassi – giustificato e provocato dalle aggressive dichiarazioni sul livello futuro dei tassi provenienti da esponenti della Fed prima e della Bce dopo – il Btp ha mostrato maggiore sensibilità al rialzo rispetto al Bund. Ma guardando indietro di un anno, il Btp decennale offriva lo stesso rendimento di oggi (4,75%) mentre il Bund tedesco è salito dal 2,20% al 2,85%. Per questo motivo, lo spread è sceso di 60 punti, da 255 a 195. In più, rispetto ad allora, bisogna osservare che la Bce è venditrice netta di titoli italiani. Solo ad agosto, ha riversato sul mercato 8,2 miliardi di titoli, circa la metà delle vendite complessivamente effettuate. A settembre e ottobre sono in scadenza rispettivamente 13 e 44 miliardi, di cui la quota italiana sarà certamente rilevante. Se a ciò aggiungiamo che il Tesoro anche ad agosto ha dovuto emettere titoli per 29 miliardi (dopo le emissioni record di 106 miliardi nel bimestre precedente) possiamo concludere che oscillazioni di rendimento nell’ordine dei 30-40 punti non devono destare eccessive preoccupazioni. Al contrario, devono essere interpretate come segnali di tenuta rispetto a un quadro macroeconomico che manifesta chiari segnali di peggioramento, in presenza del quale, in altri tempi, si sarebbe scatenata ben altra bufera.

Il Btp decennale intorno a 4,70% è una quota che è stata testata dai mercati almeno altre due volte negli ultimi 12 mesi – sempre obbedendo alla regola secondo cui quando c’è una tensione rialzista sui tassi, il Btp è oggettivamente un sorvegliato speciale che attira le attenzioni di chi assume posizioni ribassiste sul prezzo del titolo, in questo incentivato dalla disponibilità di un derivato molto liquido come il Btp future – e entrambe le volte chi ha puntato contro il Btp ne è uscito con le ossa rotte, perché il rendimento ha poi ripiegato fino ai minimi intorno al 4%.

Vorremmo infine ricordare che quel 4,70% di un anno fa, si registrò con un’inflazione record del 11,8% su base annua e con la Bce impegnata a rialzare i tassi a colpi di 75 punti base alla volta. Oggi siamo con l’inflazione al 5,3% a settembre e un probabile sensibile calo previsto ad ottobre (perché la variazione dei prezzi sarà calcolata partendo da una base molto più alta). Quel rendimento (crescente in termini reali, grazie all’inflazione in calo) dovrebbe presto ridiventare un richiamo molto interessante. L’impressione è che in questi giorni gli investitori abbiamo sovrastimato le recenti parole di Christine Lagarde che ancora usa un linguaggio “muscolare” e non si convince che non può seguire la politica monetaria degli Usa, tante sono le differenze attuali e prospettiche.

Certo, non si possono negare timori degli investitori riguardanti i saldi della prossima legge di bilancio e, soprattutto, la loro composizione. Ma anche qui, è probabile che i mercati temano più i comportamenti erratici della Commissione che il deficit/PIL 2024 pari al 4,3% previsto nella Nadef.

Anche perché c’è qualcosa che non torna confrontando i numeri della Nadef e i primi commenti. Parrebbe che il governo sia stato poco deciso nel ridurre il rapporto debito/PIL, destando preoccupazioni tra gli investitori. Ma così non è, numeri alla mano. Facciamo un passo indietro ad aprile 2023, quando il governo pubblicò il precedente quadro programmatico che a settembre ogni anno viene abitualmente aggiornato.

Solo 6 mesi fa, il debito/PIL programmatico per 2023, 2024, 2025 era rispettivamente pari a 142,1%, 141,4% e 140,9%. Con la Nadef il nuovo quadro programmatico è diventato 140,2%, 140,1% e 139,9%.

Confrontando i livelli, è evidente che il governo abbia ridotto ulteriormente gli obiettivi programmatici di debito/PIL in tutti gli anni. In particolare, 1,9, 1,3 e 1 punto in meno per ciascun anno del triennio considerato. E non si capisce perché, se ad aprile 141,4% del 2024 andava bene, ora, che l’obiettivo è fissato al 140,1%, qualcuno alzi le sopracciglia.

È vero che la Nadef presenta un profilo di discesa meno ripido rispetto al Def (solo 0,3 punti dal 2023 al 2025, contro 1,3 punti del Def), ma è il livello che conta ai fini della sostenibilità del debito.

Va evidenziato che il nuovo livello indicato dal governo beneficia della revisione al rialzo del PIL (35 miliardi) comunicata dall’Istat il 22 settembre, ma è pesantemente zavorrato dai circa 30 miliardi di ulteriore debito per lo sforamento della previsione del Superbonus. Ciononostante si migliora. Ed è quello che dovrebbe contare per i mercati.

Infatti, gli investitori sanno benissimo che le entrate tributarie fino a luglio sono aumentate del 8,6% e il ministro Giancarlo Giorgetti ha incassato 25 miliardi in più rispetto al 2022. Sanno altresì che il tasso di crescita del PIL nominale del 2023 e 2024 è ben superiore al costo medio del debito, il che garantisce il rientro del rapporto debito/PIL. La preoccupazione deriva dal fatto che la Commissione non ha affatto rinunciato – perché la cosiddetta “sospensione” del Patto di Stabilità non lo impedisce – a mettere nel mirino gli Stati il cui deficit/PIL eccede il 3% e il cui debito/PIL eccede il 60%. Il rapporto emesso il 24 maggio scorso sulla procedura per deficit eccessivo ai sensi dell’articolo 126 del TFUE, osservando i conti 2022 e 2023, individua in Italia e Francia i sorvegliati speciali per i quali la Commissione ha accertato la violazione dei limiti e l’8 marzo ha solo deciso di rinviare alla primavera 2024 l’apertura di tale procedura. È questo che temono i mercati e di cui sono pronti ad approfittare: il roteare casuale di una rozza clava che – prospettando problemi nel bilancio e prefiggendosi di correggerli – di fatto si traduce in una profezia autoavverante pro ciclica e fa guadagnare chi si è messo in anticipo dal lato giusto del mercato.

Lunedì capiremo se i mercati si accontenteranno dell’oggettivo riprezzamento che c’è stato su tutti i titoli governativi e si stabilizzeranno o ascolteranno le Cassandre in servizio permanente effettivo (retribuito?) che non vedono l’ora di chiamare il Podestà straniero a Palazzo Chigi.

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