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Xi

Tutti i buchi delle pensioni in Cina

Osservare i punti di criticità del sistema di Pechino a comprendere che la Cina è inserita a pieno titolo nel grande calderone di cambiamenti socio-economici che sta terremotando le nostre società verso una terra incognita. L'approfondimento di Maurizio Sgroi

La lunga storia del sistema pensionistico pubblico cinese, iniziata nel 1951 e passata attraverso almeno quattro fasi di profondo cambiamento, che hanno condotto al sistema che abbiamo delineato, si trova oggi a un punto critico che molto deve ai cambiamenti demografici del paese. La Cina, da questo punto di vista, non ha problemi molto diversi dalle società occidentali, che invecchiano e devono comunque tenere in piedi costose attrezzature sociali – come la previdenza appunto – disegnate per società dove gli anziani erano una minoranza, non una maggioranza relativa.

Perciò osservare i punti di criticità del sistema cinese, pure al netto delle sue peculiarità, serve più che altro a comprendere che la Cina è inserita a pieno titolo, anche da questo punto di vista, nel grande calderone di cambiamenti socio-economici che sta lentamente – ma ineluttabilmente – terremotando le nostre società verso una terra incognita.

Basteranno giusto un paio di elementi per farsene un’idea. Il numero dei partecipanti del BOAI, ossia il primo pilastro della previdenza pubblica, è cresciuto significativamente, passando dal 45,1% del 2000 al 68,7% del 2017.

Questo non poteva che avere conseguenze sul tasso di dipendenza, ossia sulla quota di lavoratori che sostengono i pensionati. Quest’ultimo è passato dal 18,6% del 1990 al 32,5% del 2010, fino al 37,7% del 2017. “In altre parole – scrivono gli economisti del NBER – siamo passati da un sistema dove 5,4 lavoratori supportavano un pensionato, a meno di tre lavoratori. Questo è dovuto al cambiamento della distribuzione dell’età nelle popolazione cinese”. Infatti la old-age dependency ratio, ossia il rapporto fra gli over 60 e la popolazione in età lavorativa (15-59enni) è aumentata nel tempo, analogamente a quanto è accaduto nelle nostre società.

In particolare, dal 1950 al 2010 il numero degli over 60 si è triplicato, passando dal 7,5% della popolazione totale al 17,2% nel 2010. Gli over 65 sono passati dal 4,5% della popolazione nel 1950 all’8,2% nel 2010. Il notevole declino della fertilità ha condotto la quota della popolazione degli 0-14enni dal 34,2% del 1950 al 19,5% del 2010.

Questi dati macro aiutano a spiega perché i contributi cinesi siano così alti nel confronto internazionale.

Questo a fronte di benefici pensionistici che erano molto generosi fino alle metà degli anni ’90, all’incirca fra il 75 e il 90% dell’ultimo stipendio, ma che poi si sono notevolmente ridotti dopo le riforme che sono seguite. Un po’ come è accaduto anche in molti paesi occidentali. Oggi il target del tasso di sostituzione non arriva al 60% e in media è declinato fino al 46% nel 2017. Anche i cinesi, insomma, soffrono l’inaridirsi delle fonti della previdenza, ossia una forza lavoro sufficiente a pagare in maniera sostenibile i contributi per le pensioni. Tanto è vero che senza i sussidi pubblici, che sono significativi, il sistema sarebbe stabilmente in deficit.

Questo significa in sostanza che la stabilità finanziaria del sistema previdenziale non deriva dal sistema stesso, come dovrebbe essere in teoria, ma dal sussidio della fiscalità generale, con ciò portando un elemento di criticità che alla lunga rischia di essere difficile da gestire, come sappiamo bene noi italiani.

Peraltro le previsioni demografiche ipotizzano che la quota degli over65 sul totale della popolazione raddoppierà fra il 2010 e il 2030. Quindi il costo di questi sussidi, che nel 2017 quotava circa l’1% del pil cinese, “mostrerà un aumento drammatico in futuro se non ci saranno riforme”. Questa situazione si verifica a fronte di un notevole tasso di evasione dell’obbligo contributivo. Secondo alcune rilevazioni, circa il 70% delle imprese paga meno contributi di quanto dovrebbe, probabilmente anche perché la percentuale richiesta è molto elevata, come abbiamo visto. Al 20% di contributi previdenziali, infatti, bisogna anche aggiungere un altro 6-10% di contributi sanitari, il 2% di assicurazione contro la disoccupazione, e un altro 1% per infortuni e maternità. Complessivamente quindi il datore di lavoro arriva a pagare fra il 29 e il 33% di contributi sociali complessivi.

L’ultimo elemento di criticità è relativo alle notevoli disparità nascoste all’interno del sistema. La sua gestione regionalizzata e le diverse riforme che si sono succedute hanno condotto a notevole differenze nei benefici, generando frizioni sul mercato del lavoro. Quando un lavoratore cambia città, ad esempio, il suo piano pensionistico rimane collegato a quello della sua regione di origine e questo può scoraggiare la mobilità. A ciò si aggiunga che si stanno ampliando le differenza demografiche fra molte province.

In conclusione, la Cina dovrà affrontare molte sfide in futuro e quella previdenziale sarà sicuramente una di queste. Il fatto che sia in buona compagnia non dovrebbe rassicurare. Al contrario: dovrebbe preoccuparci tutti.

 

Articolo pubblicato su thewalkingdebt.org

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