La lunga storia del sistema pensionistico pubblico cinese, iniziata nel 1951 e passata attraverso almeno quattro fasi di profondo cambiamento, che hanno condotto al sistema che abbiamo delineato, si trova oggi a un punto critico che molto deve ai cambiamenti demografici del paese. La Cina, da questo punto di vista, non ha problemi molto diversi dalle società occidentali, che invecchiano e devono comunque tenere in piedi costose attrezzature sociali – come la previdenza appunto – disegnate per società dove gli anziani erano una minoranza, non una maggioranza relativa.
Perciò osservare i punti di criticità del sistema cinese, pure al netto delle sue peculiarità, serve più che altro a comprendere che la Cina è inserita a pieno titolo, anche da questo punto di vista, nel grande calderone di cambiamenti socio-economici che sta lentamente – ma ineluttabilmente – terremotando le nostre società verso una terra incognita.
Basteranno giusto un paio di elementi per farsene un’idea. Il numero dei partecipanti del BOAI, ossia il primo pilastro della previdenza pubblica, è cresciuto significativamente, passando dal 45,1% del 2000 al 68,7% del 2017.


Questi dati macro aiutano a spiega perché i contributi cinesi siano così alti nel confronto internazionale.
Questo a fronte di benefici pensionistici che erano molto generosi fino alle metà degli anni ’90, all’incirca fra il 75 e il 90% dell’ultimo stipendio, ma che poi si sono notevolmente ridotti dopo le riforme che sono seguite. Un po’ come è accaduto anche in molti paesi occidentali. Oggi il target del tasso di sostituzione non arriva al 60% e in media è declinato fino al 46% nel 2017. Anche i cinesi, insomma, soffrono l’inaridirsi delle fonti della previdenza, ossia una forza lavoro sufficiente a pagare in maniera sostenibile i contributi per le pensioni. Tanto è vero che senza i sussidi pubblici, che sono significativi, il sistema sarebbe stabilmente in deficit.

Peraltro le previsioni demografiche ipotizzano che la quota degli over65 sul totale della popolazione raddoppierà fra il 2010 e il 2030. Quindi il costo di questi sussidi, che nel 2017 quotava circa l’1% del pil cinese, “mostrerà un aumento drammatico in futuro se non ci saranno riforme”. Questa situazione si verifica a fronte di un notevole tasso di evasione dell’obbligo contributivo. Secondo alcune rilevazioni, circa il 70% delle imprese paga meno contributi di quanto dovrebbe, probabilmente anche perché la percentuale richiesta è molto elevata, come abbiamo visto. Al 20% di contributi previdenziali, infatti, bisogna anche aggiungere un altro 6-10% di contributi sanitari, il 2% di assicurazione contro la disoccupazione, e un altro 1% per infortuni e maternità. Complessivamente quindi il datore di lavoro arriva a pagare fra il 29 e il 33% di contributi sociali complessivi.
L’ultimo elemento di criticità è relativo alle notevoli disparità nascoste all’interno del sistema. La sua gestione regionalizzata e le diverse riforme che si sono succedute hanno condotto a notevole differenze nei benefici, generando frizioni sul mercato del lavoro. Quando un lavoratore cambia città, ad esempio, il suo piano pensionistico rimane collegato a quello della sua regione di origine e questo può scoraggiare la mobilità. A ciò si aggiunga che si stanno ampliando le differenza demografiche fra molte province.
In conclusione, la Cina dovrà affrontare molte sfide in futuro e quella previdenziale sarà sicuramente una di queste. Il fatto che sia in buona compagnia non dovrebbe rassicurare. Al contrario: dovrebbe preoccuparci tutti.
Articolo pubblicato su thewalkingdebt.org









