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effetti calo demografico

Tutti gli effetti economici e geopolitici del calo demografico

Il calo demografico implica una crescita economica più lenta: se la popolazione diminuisce, il PIL complessivo faticherà a salire anche in presenza di una crescita della produttività media. L'analisi di Jeffrey Cleveland, Chief economist di Payden & Rygel

 

Entro il 2086 la popolazione mondiale potrebbe raggiungere il picco di circa 10,4 miliardi di persone per poi iniziare a diminuire. Nonostante il progresso scientifico, infatti, ci vogliono ancora 40 settimane per mettere al mondo un figlio e un paio di decenni perché possa essere davvero socialmente utile, dunque per ogni coppia che sceglie di avere figli può nascere solo un numero limitato di bambini. Affinché la popolazione attuale resti almeno stabile, il numero medio di nuovi nati dovrebbe essere di 2,1 per ciascuna donna e, proprio grazie a questo indicatore, è possibile stimare quante persone abiteranno il Pianeta tra, ad esempio, 20 anni.

Nuove mappe demografiche

Dal 1960 al 2021, il tasso di fertilità della Corea del Sud è calato del -86%, passando da quasi sei nascite per donna a 0,81. Secondo le Nazioni Unite, la popolazione di questo paese, esempio perfetto di calo demografico, potrebbe diminuire di circa 20 milioni nei prossimi 50 anni. In Cina il numero di nascite è già sceso a 1,16 per donna e nei prossimi decenni la popolazione potrebbe ridursi di addirittura 654 milioni, perdendo il primato di nazione più popolosa del mondo a favore dell’India, che, all’inizio del prossimo secolo, potrebbe arrivare a contare 1,7 miliardi di abitanti, circa 600 milioni in più di quelli del Dragone (vedi Grafico 1).

Tuttavia, qui il condizionale è d’obbligo poiché il tasso di fertilità indiano è già pari a 2,0 nelle zone rurali e a 1,6 nelle aree urbane, ben al di sotto del coefficiente demografico di sostituzione naturale.

L’Africa rappresenta un’eccezione al calo demografico, ma i tassi di fertilità tendono a diminuire con l’aumento del reddito pro-capite. Inoltre, è probabile che la crescita demografica di quest’area richieda più tempo per compensare il calo della popolazione di altre zone. Secondo la Banca Mondiale, nel 2021 il tasso di fertilità totale a livello mondiale era pari a 2,27, ma già nei prossimi due decenni potrebbe scendere sotto la soglia del 2,1.

Zone grigie degli indicatori demografici

Esistono tuttavia delle “zone grigie” anche tra le pieghe dei numeri della demografia: incentivi governativi, cambiamenti culturali o progressi tecnologici potrebbero infatti determinare un aumento dei tassi di fertilità. Per quanto riguarda l’immigrazione, dal momento che la Terra si trova ancora in una fase di declino demografico su base netta, il ruolo delle dinamiche migratorie è relativo, poiché queste possono solo spingere singole regioni a guadagnare abitanti a danno di altre. Sul fronte ambientale, ritenere il calo demografico un vantaggio per l’ambiente è fuorviante, come dimostra il fatto che negli ultimi decenni le economie globali sono già diventate meno avide di risorse naturali, nonostante i nuovi picchi demografici (Grafico 2).

Il calo demografico implica, invece, una crescita economica più lenta se i tassi di aumento della produttività (cioè il rapporto tra numero di lavoratori e produzione nel tempo) restano in linea con i dati storici. Negli Stati Uniti, per esempio, la produttività del lavoro è stata in media del 2% nei 50 anni pre-Covid. Con una crescita della popolazione attiva dell’1%, il PIL è complessivamente aumentato di circa il 3% all’anno. Se la popolazione diminuisce, il PIL complessivo faticherà a salire anche in presenza di una crescita della produttività media.

L’unico modo per arginare il problema consiste nell’incrementare la produttività per compensare il calo demografico, che altrimenti correrebbe il rischio di tradursi in un pesante fardello fiscale, soprattutto se con l’invecchiamento della popolazione crescono parallelamente anche i costi di pensioni e sanità pubblica. I progressi dell’apprendimento automatico lasciano sperare che gli avanzamenti tecnologici possano spingere in alto la produttività, ma la matematica in questo caso sembra difficile da smentire.

C’è comunque speranza: a partire dagli anni ‘50, solo il 15% circa della crescita economica degli Stati Uniti si può ricondurre all’aumento della popolazione, mentre i fattori più importanti in tal senso sono stati il miglioramento del livello di istruzione, gli investimenti in ricerca e sviluppo e l’incremento della quota di popolazione attiva.

Fine della Grande Moderazione?

La contrazione della forza lavoro può comportare un aumento dell’inflazione e, di conseguenza, dei tassi di interesse. Uno scenario molto diverso rispetto all’epoca della Grande Moderazione, periodo iniziato nella seconda metà degli anni Ottanta e durato fino al 2008, durante il quale i paesi sviluppati hanno beneficiato di tassi di interesse bassi e in calo e inflazione contenuta.

Gli economisti Charles Goodhart e Miraj Pradhan hanno notato che in questi anni “Oltre 240 milioni di cinesi in età lavorativa (15-64 anni) sono entrati nel sistema globale a valle dell’integrazione del loro paese nel complesso manifatturiero e di scambio internazionale. Quattro volte di più dei quasi 60 milioni di lavoratori di Stati Uniti ed Europa insieme. Il crollo dell’URSS ha portato nel commercio mondiale anche l’intera Europa orientale, con un ulteriore aumento di circa 210 milioni di persone. Questi fenomeni hanno generato il più grande e massiccio shock positivo di sempre per l’offerta di lavoro”. La globalizzazione è fiorita: dal 1990 al 2017, il commercio internazionale è cresciuto del 5,6% all’anno. I consumatori di tutto il mondo hanno usufruito di beni più economici e le imprese hanno accumulato profitti record grazie a costi del lavoro più contenuti.

Profezie (non previsioni)

In assenza di un’esplosione demografica in vista, che cosa succede quando uno shock positivo dell’offerta di lavoro diventa negativo? Inflazione e tassi di interesse potrebbero subire pressioni al rialzo?

Il rallentamento della crescita demografica e l’invecchiamento della società potrebbero spostare le rotte migratorie verso climi più caldi, con il conseguente crollo del mercato immobiliare nelle zone spopolate.  In secondo luogo, il numero delle università potrebbe diminuire lasciando spazio alle istituzioni più prestigiose e facendo sì che meno studenti accedano a contesti accademici di livello inferiore. Negli atenei della Corea del Sud, ad esempio, le iscrizioni sono diminuite per 18 anni consecutivi.

La combinazione tra invecchiamento della popolazione e calo delle nascite potrebbe anche dar luogo a un fenomeno sociale unico e affascinante: nei luoghi dove vivono più famiglie con un solo figlio, con entrambi i nonni in vita e due adulti che crescono e accudiscono il bambino, i giovani potrebbero godere di un’attenzione senza precedenti da parte della società.

In conclusione, è bene ribadire che non esistono scenari immutabili e che il panorama demografico offre nuove possibilità, anche a dispetto di numeri e proiezioni che possono sembrare solo fonti di problemi.

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