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Commissione Europea Francia

Tutti gli aiutini della Commissione europea alla Francia

L'esecutivo comunitario si è sempre mostrato molto clemente con il governo francese di turno. Sarà lo stesso anche con le nuove regole di governance economica del Patto di stabilità e crescita? Estratto dalla newsletter Mattinale Europeo

 

Appena entrate in vigore, le nuove regole di governance economica del Patto di stabilità e crescita sono già messe in discussione dall’evoluzione delle finanze pubbliche della Francia. Il nuovo governo di Michel Barnier inizia il suo mandato con un deficit previsto per il 2024 al 6 per cento, un livello di gran lunga superiore al 5,1 per cento programmato in primavera dal precedente governo. Il primo ministro ha promesso di rispettare le regole di bilancio europee. Ma Barnier ha spostato unilateralmente la data per tornare sotto il 3 per cento dal 2027 al 2029. Il ministro delle Finanze, Antoine Armand, ieri ha illustrato all’Eurogruppo le sue priorità. La legge di bilancio che sarà presentata venerdì all’Assemblea nazionale sarà “pienamente in linea con le nuove regole di bilancio europee. Il nostro obiettivo sarà ridurre il deficit pubblico francese al 5 per cento nel 2025 e poi al di sotto del 3 per cento entro il 2029”, ha detto Armand. Eppure in pochi a Bruxelles ci credono. La Commissione minimizza. Ma la deriva fiscale di Parigi non ha solo implicazioni per la credibilità delle regole europee, per le proposte di indebitamente comune avanzate da Mario Draghi o per la posizione del paese sui mercati. In gioco è il posto della stessa Francia nell’Ue.

Lo sforzo fiscale che la Francia dovrà compiere nel 2025 è di proporzioni storiche: 60 miliardi di euro, di cui 40 miliardi di tagli alla spesa e 20 miliardi di nuove imposte. Gli anni successivi non saranno da meno. Secondo le nuove regole del Patto di stabilità e crescita, se la Commissione accetterà di prolungare il periodo di aggiustamento fiscale da quattro a sette anni in cambio di riforme strutturali e investimenti, la Francia dovrà realizzare un aggiustamento strutturale superiore allo 0,5 per cento del Pil. Altrimenti lo sforzo dovrà essere più alto.

La Commissione ha avviato la scorsa settimana le discussioni tecniche con il nuovo governo. “Riconosciamo le difficoltà”, ha detto il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni. La prima conversazione con Armand è stata “promettente”, ha aggiunto Gentiloni. Ma altri ministri delle Finanze sono più scettici. “La disciplina di bilancio è molto importante”, ha ricordato l’olandese Eelco Heinen. “Sono curioso di sentire come la Francia ritornerà a finanze pubbliche sane”, ha ironizzato il tedesco Christian Lindner.

L’ottimismo di Gentiloni rientra nella lunga storia di favori della Commissione alla Francia. L’esecutivo comunitario si è sempre mostrato molto clemente con il governo francese di turno, anche nel pieno della crisi del debito sovrano del 2010-12, quando esigeva dagli altri Stati membri dure politiche di austerità per rassicurare i mercati. La Francia è stata sotto procedura per deficit eccessivo dal 2009 al 2018. La scadenza per scendere sotto il 3 per cento è stata prorogata per tre volte nel 2009, nel 2013 e nel 2015. Ogni scusa era buona, compresa la mancanza di prove che il governo non avesse adottato misure effettive per ridurre il deficit. Più sinteticamente, l’ex presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, spiegò la vera ragione di questa clemenza. “Perché è la Francia”, disse Juncker durante il Congresso dei sindaci il 31 maggio del 2016. La sospensione del Patto di stabilità e crescita nel 2020 a causa del Covid-19, prorogata fino alla fine del 2023 usando come scusa la guerra russa in Ucraina e l’aumento dei prezzi dell’energia, ha permesso di nascondere il problema della deriva dei conti pubblici della Francia sotto il tappeto. Oggi riemerge. Ma la Francia del 2024 non è più la Francia del 2016.

La prima differenza è il debito pubblico della Francia, che prima del Covid si collocava sotto il 100 per cento, un livello che permetteva a Parigi di restare sulla scia della tripla A (la notazione delle agenzie di rating) della Germania. Oggi, a 3.228,4 miliardi (secondo i dati del secondo trimestre pubblicati dall’Insee), il debito pubblico ha raggiunto il 112,0 per cento del Pil ed è in crescita. Negli anni della crisi del debito sovrano, la verticale del potere della Quinta repubblica funzionava alla perfezione. “Se l’Eliseo decide, tutti gli altri eseguono”, ci disse all’epoca un commissario europeo, rispondendo a una domanda sul diverso trattamento riservato alla Francia e all’Italia. Oggi le promesse di Emmanuel Macron di risanamento non sono state mantenute, il caos politico ha preso il sopravvento e non c’è una maggioranza all’Assemblea nazionale. Il governo Barnier potrebbe cadere proprio sulla legge di bilancio.

Dopo la decisione di Macron di dissolvere l’Assemblea nazionale e di convocare elezioni anticipate, i mercati se ne sono accorti. Lo spread – il differenziale di rendimento dei titoli pubblici, che misura il rischio per gli investitori – tra i Bund decennali tedeschi e gli OAT francesi è salito a quasi 80 punti base. Più allarmante, nonostante la formazione del governo Barnier, sui titoli a cinque e due anni la Francia si indebita a un costo più alto di Spagna, Portogallo e… Grecia. La fiducia nella capacità del governo francese di mettere i conti in ordine nel breve periodo è più bassa che nei paesi in cui era intervenuta la Troika. Tra le agenzie di rating, Standard & Poor’s si è mossa per prima, già alla fine di maggio, tagliando la notazione della Francia da “AA” a “AA-” con prospettive negative. L’11 ottobre toccherà a Fitch rivedere la notazione della Francia. Il 25 ottobre a Moody’s.

La calma (relativa) dell’Ue di fronte all’agitazione (relativa) dei mercati è giustificata da due cambiamenti maggiori rispetto alla crisi del debito sovrano. La Banca centrale europea si è data gli strumenti per intervenire sui mercati e l’Ue vuole evitare di alimentare profezie che si auto-avverano con eccessivi allarmismi. Ma la Francia mette la Commissione davanti a una prova. Il Patto di stabilità e crescita è appena stato riformato. Se non saranno applicate in modo serio, le nuove regole non saranno credibili nemmeno per i paesi con un debito più alto, a cominciare dall’Italia, che potrebbero innescare una nuova crisi del debito sovrano. “Non bisogna scherzare”, ha avvertito il tedesco Christian Lindner. Inoltre, senza un miglioramento delle finanze pubbliche dei paesi più indebitati, è praticamente impossibile convincere i “frugali” ad accettare ulteriori forme di indebitamento comune sul modello di NextGenerationEU.

Lo stesso rapporto di Mario Draghi riconosce che è necessario “un quadro più forte di regole fiscali che garantisca che un aumento del debito comune sia accompagnato da un percorso più sostenibile del debito nazionale”. L’European Fiscal Board – il gruppo di saggi che valuta l’operato della Commissione sul Patto di stabilità e crescita – nel suo ultimo rapporto si è mostrato molto scettico nella capacità dell’esecutivo comunitario di far rispettare le regole. “La riforma viene implementata in tempi difficili per le finanze pubbliche, poiché il sostegno pubblico al consolidamento fiscale è tutt’altro che scontato e le pressioni sulla spesa pubblica si stanno accumulando”, ha detto l’European Fiscal Board. “Convincere i decisori politici nazionali che i rischi delle attuali tendenze delle finanze pubbliche sono diventati sufficientemente chiari da giustificare il consolidamento è diventata una battaglia in salita”.

Nella prossima Commissione l’attuazione del Patto di stabilità e crescita è stata affidata al commissario lettone, Valdis Dombrovskis, considerato un falco, ma sotto la supervisione del vicepresidente francese, Stéphane Séjourné. Con ogni probabilità sarà la presidente Ursula von der Leyen a prendere le decisioni. Nessuno si aspetta una linea più dura con la Francia. “Sono i mercati che decidono se e quando imporre l’austerità, non la Commissione o le regole del Patto di stabilità”, ci ha spiegato una fonte.

Al di là di potenziali declassamenti, c’è una ragione tutta politica per cui la Francia deve risanare i suoi conti pubblici. “Per pesare a Bruxelles, bisogna rispettare i trattati, a cominciare da quello di Maastricht”, ha detto a Le Monde l’ex commissario francese, Thierry Breton, commentando l’egemonia della Germania nell’Ue: “Un paese a cui si apre una procedura per deficit eccessivo è indebolito rispetto agli altri. Con un deficit al 6 per cento del Pil, senza che ci sia una ragione esogena, la voce della Francia si fa sentire di meno”. Oltre allo spread sul debito, la Francia sta pagando uno “spread politico” sulla Germania.

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