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Nord

Il flop delle regioni

Che cosa emerge da uno studio, firmato da tre docenti universitari, su una breve storia del regionalismo dall'Unità d'Italia. L'articolo di Tino Oldani per ItaliaOggi

La Rivista economica del Mezzogiorno, edita dal Mulino, ha pubblicato un saggio che fa il punto sul regionalismo e le sue lacune, messe in luce dal conflitto Stato-Regioni durante l’ultimo anno e mezzo di Covid-19. Lo studio, firmato da tre docenti universitari, Alice Cauduro (Giurisprudenza, Torino), Amedeo Di Maio (Scienze umane e sociali, Napoli), Antonio Di Majo (Economia, Roma Tre), fa una breve storia del regionalismo dall’Unità d’Italia (1861), ne approfondisce le lacune costituzionali insite nell’istituzione (1970) e nella riforma del Titolo V che introdusse (2001) la «concorrenza» Stato-Regioni, esamina il ruolo fallimentare delle Regioni nella spesa dei fondi Ue e mette a fuoco la richiesta di un «regionalismo rafforzato» volta a trasferite alle Regioni a statuto ordinario una fetta maggiore delle entrate fiscali. Una richiesta basata essenzialmente sulla convenienza momentanea del partito al potere, che prescinde da ogni calcolo di compatibilità economica con la spesa pubblica e che se accolta priverebbe lo Stato centrale delle risorse per garantire i servizi essenziali. Da qui, la bocciatura delle pretese dei governatori sul regionalismo rafforzato, i quali durante la pandemia hanno litigato spesso e volentieri con lo Stato centrale, senza però dimostrare di sapere fare meglio.

Il primo a proporre l’istituzione delle Regioni è stato nel 1861 Marco Minghetti. La proposta fu respinta in Parlamento all’unanimità. Da allora, per più di cento anni, le Regioni sono rimaste un’espressione geografica. La Costituzione del 1948 ne previde l’istituzione, ma lo Stato centrale non cedette potere per 22 anni. «L’istituzione delle Regioni nel 1970 non fu dettata da un ben calcolato disegno economico ma dalla convenienza politica del momento», sostiene Di Majo. «Allora il Pci era in forte crescita elettorale e La Dc, insieme con gli alleati di governo, accettò di istituire le Regioni per concedere al Pci di governare quelle in cui era maggioranza». Nacquero così le Regioni rosse e quelle bianche (Dc) senza che fosse subito chiaro di cosa si sarebbero dovute occupare sul piano amministrativo.

Anche la riforma del Titolo V della Costituzione rispondeva a un calcolo politico. «La Lega, in forte crescita nel Nord, chiedeva la secessione», spiega Di Majo. «Così, fu concessa alle Regioni la concorrenza amministrativa con lo Stato. Anche in questo caso, una decisione politica che non aveva alle spalle un calcolo economico serio». Ciò che ha portato ad aumentare non solo i trasferimenti dello Stato alle Regioni, ma anche la loro capacità impositiva sul piano dei tributi locali. Nel 1977, prima della riforma sanitaria che ne trasferì l’attuazione alle Regioni, la spesa regionale era pari al 2% del pil. Nel 1980 era già salita all’8%, per più di metà dovuta all’assistenza sanitaria e ospedaliera. Il tutto a carico dei trasferimenti dallo Stato centrale, in quanto nel 1980 le entrate regionali da «tributi propri» ammontavano a 464 miliardi di lire, lo 0,14% del pil. Con la riforma del 2001 sono stati introdotti nuovi parametri per finanziare le Regioni: spesa storica e indici perequativi, popolazione residente, fabbisogno sanitario e capacità fiscale. Innovazioni di difficile applicazione, che i governatori delle Regioni più ricche hanno sempre giudicato insufficienti, fino a reclamare il regionalismo rafforzato, per trattenere nelle Regioni a statuto ordinario quasi tutte le imposte riscosse dallo Stato.

Una soluzione, che lo studio boccia in quanto dettata dall’ennesimo calcolo politico, che prescinde dalla realtà e rischia di rendere vana la garanzia dei Lea, livelli essenziali di assistenza (Lea) nella sanità, oltre che negli investimenti pubblici e nei servizi pubblici quali scuola, sicurezza e giustizia. Il tutto senza scalfire minimamente il problema di fondo dell’Italia, che per i tre autori del saggio è il «dualismo economico» Nord-Sud.

La conclusione dello studio è tuttavia prudente: «L’esperienza storica del nostro paese potrebbe rendere agevole la previsione che, poiché i nodi che hanno ostacolato, per un ventennio, l’attuazione del decentramento regionale differenziato e/o rafforzato non sembrano di facile soluzione», si legge, «l’attuale incerta situazione potrebbe protrarsi» ulteriormente.

Articolo pubblicato su ItaliaOggi

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