La cosa strana è che ormai quasi nessuno prende più sul serio Donald Trump: il presidente americano ha spostato la frontiera della normalità, di quello che è accettabile, e dunque anche le mosse più abnormi ormai appartengono al nuovo stile al quale ci sta abituando. L’annuncio dei dazi al 50 per cento contro l’Unione europea di venerdì 23 maggio, poi sospeso la domenica, rientra tra le cose che succedono nell’età di Trump, anche se non hanno alcun senso.
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L’unico modo per sottrarsi alla follia dei tempi trumpiani è rimettere in fila gli eventi. Il 2 aprile c’è il liberation day, Trump annuncia dazi contro tutti i Paesi del mondo tranne la Russia di Vladimir Putin.
L’obiettivo dichiarato è riequilibrare il deficit commerciale degli Stati Uniti, l’approccio è quello di cercare il pareggio con ogni singolo Paese, uno sforzo tanto titanico quanto assurdo, perché se le imprese americane importano beni intermedi da un Paese ed esportano il prodotto finito in un altro, ci sarà sempre un deficit da una parte e un surplus dall’altra.
Lo sforzo è inutile anche perché se pure i dazi funzionassero, cioè se le aziende straniere decidessero di aprire fabbriche negli Stati Uniti per aggirare la barriera alle importazioni, il dollaro si rafforzerebbe al punto da rendere di nuovo le importazioni convenienti.
Comunque, anche se la teoria economica considera assurda la scelta di Trump, lui l’ha fatta comunque. Ma quello che succede dopo è privo di senso anche all’interno della logica trumpiana che, ribadisco, non ha niente a che fare con la logica economica.
I dazi del liberation day sono del 10 per cento sulle importazioni da tutti i Paesi più un’altra percentuale calcolata con una formula subito derisa dagli economisti che in pratica indica il dazio necessario per azzerare il deficit commerciale.
All’Unione europea viene applicato uno sconto e il risultato finale è che al 10 per cento di base, se ne aggiunge un ulteriore 10 per cento.
Poi però i mercati tracollano, e nel giro di una settimana Trump deve sospendere i dazi “reciproci” annunciati il liberation day, cioè quelli oltre il 10 per cento. Nel caso dell’Ue, dunque, rimane in vigore il primo 10 per cento ma non l’ulteriore 10 che avrebbe portato il dazio al 20 per cento.
Nelle settimane convulse che seguono, Trump concentra la sua offensiva commerciale verso la Cina. E l’argomento qui è politico: poiché Pechino ha risposto ai dazi di Trump con dei contro-dazi sulle importazioni americane, allora gli Stati Uniti faranno una escalation che bloccherà di fatto l’accesso delle merci cinesi al mercato americano.
A inizio maggio i dazi in questa battaglia protezionistica tra le due principali economie del mondo arrivano al 147,6 per cento, per i prodotti americani importati in Cina, e al 126,5 per cento per quelli cinesi negli Stati Uniti.
E’ una situazione insostenibile per tutti, le imprese della Silicon Valley come Apple lamentano di non poter affrontare i costi che questo nuovo assetto comporta per un intero settore che ha affidato la produzione e l’assemblaggio dell’hardware a fabbriche basate in Cina.
Tempo una decina di giorni e anche in questo caso Trump ribalta tutto. Il 12 maggio annuncia un accordo con la Cina, i dazi sui prodotti cinesi verso gli Stati uniti scendono al 51,1 per cento, quelli cinesi su merci americane al 32.6 per cento.
Ovviamente sono medie, alcuni settori restano molto più colpiti, già dai tempi dell’amministrazione Biden i dazi contro le auto elettriche cinesi sono di oltre il 100 per cento, cosa che di fatto le esclude dal mercato americano.
La sospensione nei super-dazi estremi è soltanto transitoria, perché per aggiungere incertezza al casino Trump prende sempre decisioni a termine, così da lasciare i mercati e le imprese nel massimo della confusione. Dopo i 90 giorni previsti dall’intesa, i dazi rimarranno quelli attuali, esploderanno o si ridurranno ancora? Nessuno lo sa.
Bersaglio mobile
Nel caso della guerra commerciale con la Cina, la giustificazione per l’escalation era che Pechino aveva risposto ai dazi americani con altri dazi. E dunque, poiché nell’ottica di Trump i dazi servono a correggere ingiustizie commerciali, i cinesi andavano puniti perché non accettavano il riequilibrio imposto dagli Stati Uniti.
L’Unione europea, a differenza della Cina, non ha reagito ai dazi annunciati il 2 aprile con altri dazi, nonostante molti chiedessero di rispondere a protezionismo con altro protezionismo.
Gli unici dazi ritorsivi che la Commissione europea ha introdotto riguardano acciaio e alluminio, ma sono in risposta a dazi su quel settore che l’amministrazione Trump aveva annunciato a febbraio.
Dunque, secondo le indicazioni trumpiane, l’Unione europea si era comportata come richiesto dalla Casa Bianca: aveva incassato il colpo del dazio del 10 per cento e l’incombente minaccia dell’ulteriore 10 per cento senza rispondere colpo su colpo.
L’Ue ha iniziato a negoziare con Washington considerando tutte le opzioni aperte, inclusa quella di arrivare a una riduzione dei dazi e delle barriere non tariffarie per aumentare l’interscambio con gli Stati Uniti: quello che Trump non considera, infatti, è che gli Stati Uniti sono in deficit verso l’Ue per la manifattura, ma in surplus per i servizi, soprattutto digitali.
Dunque, ci sono ampi vantaggi da entrambe le parti a tenere i due mercati più ricchi del mondo integrati.
L’Ue ha affidato i negoziati al commissario Maros Sefcovic, ma non è servito a molto: Trump ha deciso in modo deliberato di far saltare il negoziato quando ha annunciato dazi al 50 per cento il venerdì, e poi lo ha riavviato quando ha sospeso la decisione domenica, dopo una telefonata con la presidente della Commissione Ursula von der Leyen.
E’ vero che Bruxelles ha pronta una lista di beni da 95 miliardi di euro di importazioni su cui attivare dazi punitivi contro gli Stati Uniti, ma è una misura funzionale al negoziato, non sono in vigore: la Commissione ha costruito lo scenario alternativo al successo della trattativa, in modo da chiarire che è pronta a reagire senza però farlo fino a quando c’è un tavolo di discussione.
In parallelo al negoziato con l’Unione europea, Trump ha firmato un accordo commerciale con la Gran Bretagna annunciato un po’ a sorpresa l’8 maggio: i dettagli sono scarsi, c’è qualche apertura sull’importazione di auto britanniche verso gli Stati Uniti e qualche riduzione di barriere all’importazione di prodotti agricoli e animali verso la Gran Bretagna.
Ma il dazio del 10 per cento che Trump impone al resto del mondo rimane in vigore, nonostante l’accordo con il premier britannico Keir Starmer.
A questo punto non ci si capisce più davvero nulla: i dazi di Trump una volta sono per riequilibrare il deficit commerciale, ma colpiscono anche la Gran Bretagna con la quale gli Stati Uniti hanno un surplus; poi sono uno strumento per costringere gli altri Paesi a negoziare, ma restano in vigore anche dopo l’accordo; infine sono un modo per ridisegnare i rapporti di forza in un contesto geopolitico mutato, dunque hanno una valenza strategica, ma sono sempre oscillanti anche verso il grande rivale sistemico degli Stati Uniti, cioè la Cina.
La versione di Vance
Quindi, a cosa servono i dazi? Non lo sa più nessuno. Il vicepresidente JD Vance, che spesso si assume il compito di ammantare di razionalità strategica le scelte del suo capo, ha provato a spiegare all’editorialista conservatore del New York Times Ross Douthat, che lo scopo principale del nuovo protezionismo americano è “primo, annunciare che il vecchio sistema commerciale globale era finito; secondo, dichiarare che l’America era ora aperta agli affari, aperta alla negoziazione, al dialogo e a tutta una serie di altri interventi di politica economica”.
Alla domanda su come si misura il successo il fallimento di questa politica, però, Vance è tornato alla narrativa contabile: quello che conta è ridurre il deficit commerciale degli Stati Uniti con il resto del mondo:
“Credo che il modo migliore per capire dove stiamo andando sia vedere se abbiamo ancora un disavanzo commerciale da 1.200 o 1.300 miliardi di dollari. Non l’anno prossimo, perché ci vuole tempo: bisogna costruire fabbriche, cambiare il regime commerciale con altri Paesi. Stiamo cercando di rendere le nostre esportazioni più competitive”.
Il deficit commerciale degli Stati Uniti, però, è sempre cresciuto, anche durante la prima amministrazione Trump, non c’è verso di invertire la tendenza, perché quello squilibrio è il segnale della prosperità americana, non l’indice del suo declino: i capitali affluiscono negli Stati Uniti e consentono a cittadini, imprese e governo di comprare più di quello che producono.
I soli momenti in cui il deficit si è ridotto sono state le fasi recessive, come la pandemia, quando l’economia americana si fermava e diminuivano le importazioni.
La razionalità economica però è uno strumento inutile con l’amministrazione Trump, lo stesso JD Vance lo dimostra, quando sostiene che l’indebolimento del dollaro dimostra che il presidente ha ragione e gli economisti hanno torto.
Il problema è che il dollaro si sta indebolendo, invece che rafforzarsi dopo le misure protezionistiche, perché gli investitori pensano che il danno dei dazi sarà così grande che anche se un po’ di aziende apriranno fabbriche negli Stati Uniti per aggirare le dogane, i consumatori americani soffriranno per l’aumento dei prezzi al punto che arriverà la recessione.
E quindi l’economia rallenterà, la crescita sarà debole o negativa, dunque il dollaro si indebolirà favorendo gli esportatori.
Le tre opzioni per Bruxelles sui dazi
Alla luce di questi ultimi sviluppi e della follia complessiva, a Bruxelles bisogna decidere che fare nelle poche settimane che ci separano dal 9 luglio, quando – sulla base delle regole attuali – entreranno in vigore i dazi non al 20 per cento previsti il 2 aprile, ma quelli al 50 annunciati nel weekend.
Le opzioni sono tre: cedere, combattere, ignorare. Cedere significa dare a Trump quello che vuole: un accordo che lasci in vigore il dazio al 10 per cento, magari con qualche eccezione settoriale, e che dia vantaggi alle esportazioni americane nel mercato europeo senza ottenere niente in cambio, il tutto condito da sconti e sospensioni delle sanzioni alle piattaforme digitali che violano le regole europee sulla concorrenza e tutela degli utenti.
Visto l’approccio di Trump, non finirebbe certo lì: già si intravede il secondo tempo della partita, cioè alzare al 5 per cento la richiesta Nato per spesa militare in rapporto al Pil che i Paesi europei possono rispettare comprando armi e tecnologia dagli Stati Uniti.
La seconda opzione è combattere, rispondere ai dazi con i dazi, sia con la lista da 95 miliardi già pronta o magari con lo strumento Anti coercizione, un insieme di misure disponibili proprio per queste evenienze ma che finora l’Ue non ha usato, anche perché pensato soprattutto per la deterrenza. E qui la deterrenza chiaramente non ha funzionato.
In questo schema, al danno per le imprese europee dovuto ai dazi sulle esportazioni verso gli Stati Uniti, si aggiungerebbe quello ai consumatori europei ma anche alle aziende che pagherebbero le importazioni molto di più.
La terza opzione è quella che nessuno sembra davvero considerare, anche se è la più razionale: non scendere al livello di Trump. Trattare con lui è inutile, cercare rapporti diretti privilegiati una perdita di tempo, come ha dimostrato anche l’attivismo della premier Giorgia Meloni che non ha prodotto alcun risultato concreto.
La presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, ha detto più volte che l’Ue rimane impegnata per un sistema economico globale aperto e basato sulle regole, anche se l’organismo che dovrebbe farle rispettare, il Wto, è moribondo e paralizzato proprio dagli americani.
L’Ue esporta il 22 per cento del proprio Pil, il doppio degli Stati Uniti, quindi ha il doppio degli incentivi a proteggere la globalizzazione che abbiamo conosciuto fin qui.
E’ arrivato il momento di chiarire se l’Unione europea è davvero in grado di difendere i principi che invoca tanto spesso o se è invece rassegnata ad abbracciare la follia trumpiana, con tutte le sue conseguenze.
(Estratto dalla newsletter Appunti)