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Un bilancio (economico) dei primi 100 giorni di Trump alla Casa Bianca

L'amministrazione Trump si è finora concentrata molto sul deficit commerciale americano, con annunci di dazi la cui portata ha mandato in ansia i mercati. L'analisi di Anthony Willis, Investment Manager di Columbia Threadneedle Investments.

Il 30 aprile ha segnato i 100 giorni dall’insediamento del Presidente Trump, un momento che spesso coincide con una riflessione sui primi risultati ottenuti (o meno) da un Presidente entrante.

All’inaugurazione Trump ha promesso agli americani una nuova “golden age”. Ha ereditato un’economia in buona salute, ma nel giro di tre mesi siamo passati ad un contesto di incertezza elevata, paragonabile solo alla crisi finanziaria globale e alla pandemia, con probabilità di recessione tra il 40% e il 90% a seconda di chi risponde.

Negli ultimi 100 giorni sono successe molte cose. Gli eventi hanno messo in discussione la narrativa dell’eccezionalità degli Stati Uniti, che negli ultimi anni ha portato i titoli azionari statunitensi a registrare performance significativamente superiori, trainati dalle large cap tecnologiche.

Ci sono stati momenti in cui sembrava che gli eventi si susseguissero simultaneamente e in ogni ambito. L’approccio comunicativo volto a “inondare lo spazio” con notizie e annunci politici ha reso complesso il monitoraggio e l’analisi puntuale degli sviluppi. La complessità di analisi di uno scenario in continua evoluzione rende difficile adottare decisioni di investimento caratterizzate da un elevato grado di convinzione. Per i mercati finanziari, il tema dominante è stato il ritorno ad un regime tariffario tra i più restrittivi dagli anni Trenta.

Nonostante questa marcata incertezza, alcuni asset hanno comunque mostrato una performance positiva. L’oro, in particolare, ha registrato un rialzo di quasi il 19%, un risultato significativo se espresso in dollari statunitensi dato l’indebolimento della valuta. Strumenti tradizionalmente considerati come beni rifugio, come ad esempio il dollaro USA, hanno invece evidenziato un calo rilevante: l’indice del dollaro è diminuito del 9,08% nel periodo compreso tra il 20 gennaio e il 30 aprile. Per contro, nei cinque anni precedenti al 20 gennaio 2025, lo stesso indice aveva segnato un incremento dell’11,85%.

I mercati azionari statunitensi hanno reagito positivamente alla vittoria del Presidente, aspettandosi politiche economiche simili a quelle adottate durante il suo primo mandato. L’S&P500 ha registrato il miglior guadagno post-elettorale grazie alle aspettative di un allentamento delle normative e di una riduzione delle tasse che dovrebbero stimolare la crescita. Tuttavia, l’amministrazione si è concentrata sul deficit commerciale, con l’annuncio di dazi la cui portata ha mandato in ansia i mercati e ha reso le prospettive incerte.

Proprio in seguito all’annuncio delle nuove tariffe, abbiamo assistito ad un’elevata volatilità. Sebbene il recupero osservato nella seconda metà di aprile abbia compensato il calo registrato dopo il “Liberation Day”, le quotazioni restano inferiori dell’8% rispetto ai massimi storici raggiunti il 19 febbraio. L’amministrazione è apparsa indifferente all’andamento del mercato azionario, con il Segretario al Tesoro Scott Bessent che ha definito le correzioni “salutari” e “normali”. Le crepe emerse nel mercato degli US Treasury durante le settimane più turbolente di inizio aprile sono state il maggior freno per Trump, con i bruschi movimenti che hanno costretto ad una pausa nell’attuazione delle tariffe reciproche. Alla fine, le tariffe sono rimaste in vigore solo per 13 ore.

Con i suoi indici di gradimento in calo, il Presidente Trump cercherà di passare dai dazi agli aspetti politicamente più positivi del suo programma, in primo luogo i tagli alle tasse. Questi ultimi estenderanno i tagli già avviati durante la sua prima amministrazione. Tuttavia, quando l’attenzione si sposterà sui tagli fiscali, l’economia statunitense potrebbe mostrare segni di rallentamento e resta da vedere quanto il mercato obbligazionario sarà indulgente nei confronti di politiche che aumentano ulteriormente il deficit di bilancio.

Implementare politiche a favore degli elettori è particolarmente importante in vista delle elezioni di metà mandato, in cui tradizionalmente il partito che controlla la Casa Bianca perde seggi. Una perdita del controllo del Congresso a favore dei Democratici probabilmente significherebbe livelli di intervento politico e di pressione molto più elevati di quelli attuali.

I prossimi mesi dovrebbero rivelare quanto l’ideologia di Trump sulle tariffe è profonda. I problemi delle catene di approvvigionamento, gli scaffali vuoti dove un tempo si trovavano i prodotti provenienti da oltreoceano o i prodotti improvvisamente in vendita a prezzi significativamente più alti, renderanno ancora più cupo l’umore.

L’attuale proroga di 90 giorni per le tariffe doganali scade il 9 luglio e i mercati si aspettano che venga estesa o negoziata per molti dei Paesi colpiti. In ogni caso, il tasso di tariffe raggiungerà il livello più alto degli ultimi 90 anni. Sembrano più probabili accordi più piccoli e con meno dettagli per paesi come la Corea del Sud e il Giappone, oltre che potenzialmente l’India. Gli accordi con l’Unione Europea e la Cina, invece, sembrano molto più complessi.

Siamo ben lontani dall’era del “libero scambio” che si è conclusa con l’avvento del Trump 2.0 e il ritorno a un’aliquota tariffaria effettiva inferiore al 3%, come quella di cui hanno goduto gli Stati Uniti e i loro partner commerciali negli ultimi anni.

Qualsiasi impulso all’economia nazionale derivante dal reshoring del settore manifatturiero non si farà sentire per diverso tempo. Probabilmente ci vorranno molti anni prima che i prodotti fabbricati all’estero vengano sostituiti e l’aumento dei costi dei fattori produttivi, dovuto all’aumento dei salari, si ripercuoterà inevitabilmente sui prezzi. Le imprese non si impegneranno a trasferire tutta la produzione negli Stati Uniti finché non vedranno stabilità e prevedibilità.

Si tratta quindi della fine dell’eccezionalismo statunitense? Le prospettive a breve termine per le azioni statunitensi non riguardano solo i dazi. L’andamento dell’S&P 500 potrebbe essere influenzata anche dalla capacità delle big tech di monetizzare i loro investimenti nell’intelligenza artificiale e di giustificare guadagni significativi nonostante la scarsa performance dell’anno scorso.

Solo il tempo sarà in grado di dirci se l’era Trump rappresenterà una svolta definitiva verso Stati Uniti più isolazionisti e un nuovo ordine mondiale. Nonostante le critiche, si prevede che gli Stati Uniti registreranno una crescita economica superiore a quella di qualsiasi altro Paese del G7, sia quest’anno che il prossimo. Se i prossimi 1.361 giorni sono solo un’illusione, ci aspettiamo che il dinamismo e lo spirito imprenditoriale degli Stati Uniti prevalgano nel lungo periodo. Questi aspetti positivi saranno presenti anche sotto un presidente isolazionista, ma un’economia statunitense ripiegata su sé stessa sarebbe più povera, così come il resto del mondo.

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