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Bce

Ecco i veri effetti dell’acquisto di titoli pubblici da parte di Fed e Bce. Analisi di Ref

L'analisi dell'economista Fedele De Novellis, responsabile di Congiuntura Ref

L’acquisto di titoli pubblici da parte delle banche centrali non è solo uno strumento di politica monetaria non convenzionale. Ammesso che sia davvero non convenzionale, visto che Walter Bagehot lo teorizzò nel 1873 e la Bank of England nacque nel 1694 per prestare denaro al sovrano. E poi, se la manovra dei tassi è considerata convenzionale, lo è anche quando si avventura nei territori inesplorati del costo del denaro negativo, senza precedenti nella storia della moneta? Soprattutto, quell’acquisto è di fatto anche uno strumento di finanziamento del debito pubblico e quindi di aiuto al bilancio statale, anche quando è effettuato solo sul mercato secondario, e non all’emissione (come accadeva in Italia prima del 1981). Lo è nonostante l’indipendenza delle banche centrali, sancita statutariamente, e il divorzio tra politica monetaria e politica di bilancio impediscano di vederlo formalmente come tale.

D’altra parte, è da tempo risaputo che l’azione della politica monetaria incontra dei limiti nello stimolare la domanda aggregata, per cui deve intervenire la politica di bilancio. E, ancora, che un debito pubblico molto elevato limita l’autonomia di una banca centrale, la quale può trovarsi costretta a monetizzarlo (rinunciando ai suoi obiettivi intermedi di controllo degli aggregati monetari) per evitare guai maggiori (un default creerebbe una grave instabilità in tutti i mercati, reali e finanziari).

Il lungo periodo della “grande moderazione”, la fase di buona crescita e bassa inflazione durata oltre vent’anni (da metà anni 80 al 2007), ha fatto rimuovere dalle analisi e dai conseguenti precetti degli economisti queste elementari verità. Verità sulle quali hanno prevalso i pregiudizi ideologici del bilancio in pareggio e della moneta rigorosa, secondo la visione pre-keynesiana. Come se nello studio dell’universo si ripudiasse la rivoluzione copernicana e si tornasse alla visione tolemaica, con la Terra al centro e il resto che le ruota intorno. La crisi ha dato la sveglia e ridestato la conduzione delle politiche economiche dal sonno della ragion pratica. Così, le banche centrali si sono riempite di titoli pubblici. Certamente per governare l’intera curva dei tassi e rendere più efficace l’azione monetaria e la trasmissione dei bassi tassi a tutta l’economia.

È, però, anche innegabile che l’aumento del debito pubblico nei bilanci delle autorità monetarie abbia agevolato il compito dei Tesori di emettere più titoli per finanziare il crescente debito. Lo ha fatto per almeno due vie.

La prima attraverso la riduzione della quota di debito pubblico sul mercato, creando così un ammortizzatore che favorisce la stabilità sul mercato secondario dei titoli pubblici, e quindi anche sul primario, e agevolandone il collocamento (chi acquista sa che una parte dei nuovi titoli verrà poi riassorbita dalla banca centrale stessa).

La seconda mediante la diminuzione dei tassi lungo tutta la curva, evitando la trappola della liquidità (che si verifica quando i tassi a lungo termine non calano nonostante l’iniezione di moneta da parte della banca centrale) e riducendo il costo del debito. Ne deriva un cospicuo risparmio sulla spesa per interessi che aumenta, dato il livello del deficit, gli spazi per interventi discrezionali o per lasciar operare gli stabilizzatori automatici. Inoltre, parte di quella spesa rientra dalla finestra del bilancio pubblico come utili della banca centrale retrocessi al Tesoro (per il quale, quindi, il costo del debito detenuto dalla banca centrale è nullo). Infine, la diminuzione del costo del debito ha migliorato enormemente il costo/opportunità degli investimenti pubblici. In altre parole, si tratta di una vera e propria monetizzazione del debito pubblico, seppure temporanea nelle intenzioni delle banche centrali.

Nell’epoca recente la monetizzazione è partita in Giappone (dagli inizi del 2001), dove gli acquisti di titoli pubblici sono cominciati ben prima della grande crisi per contrastare la deflazione. Poi in USA, da fine novembre 2008, con tre ondate successive di Qe e, dal prossimo ottobre, con una quarta meno esplicita: il reinvestimento in titoli del Tesoro del capitale incassato alla scadenza dei titoli MBS (titoli garantiti dai mutui ipotecari). Si tratta di 20 miliardi di dollari al mese; per confronto, al suo massimo la terza fase del Qe, varata dalla Fed nel settembre 2012 (la prima fase di Qe fu avviata nel marzo 2009) è stata di 85 miliardi al mese.

E, infine, nell’Eurozona la Qe, cominciata nel marzo 2015, ha conosciuto un potenziamento nell’aprile 2016 (da 60 a 80 miliardi di euro al mese), un graduale ridimensionamento e l’estinzione nel dicembre 2018; ci si aspetta che ricominci il prossimo settembre. In Giappone i titoli pubblici detenuti dalla Banca centrale sono passati da 48.2 trilioni di yen nel dicembre 2009, il 4.8 per cento del debito pubblico, a 465.9 trilioni a fine giugno 2019, il 35 per cento del debito pubblico complessivo, l’84 per cento del Pil. La Banca del Giappone ha incrementato la detenzione di titoli pubblici più di quanto non sia aumentato il debito pubblico stesso: +418 trilioni contro +324 trilioni di yen. Negli Stati Uniti il debito del Tesoro nel bilancio della Fed è salito da 476 miliardi di dollari a fine 2008 a 2867 a fine settembre 2017, calando a 2537 a fine marzo 2019. Nello stesso periodo il debito pubblico è passato da 10670 miliardi a 22028; cosicché la quota della Fed è salita dal 4.6 per cento all’11.5 per cento; addirittura al 15,6 per cento se si considera solo il debito pubblico sul mercato.

I dati della Fed sono interessanti in particolare come parametro per quelli Bce, essendo la banca centrale Usa spesso presa a modello. Nell’Eurozona il debito pubblico dei 19 paesi membri nel bilancio del Sistema delle Banche centrali è passato dai 133 miliardi di euro di fine 2007 ai 1536 di fine 2018, quando il programma di acquisti ha avuto termine. Il vero salto si è avuto dal 2015, quando il programma di acquisti fu ampliato: +1317 miliardi in quattro anni. In rapporto al Pil lo stock di titoli pubblici era pari al 13.1 per cento a fine 2018, contro il 2.1 per cento a fine 2014. In rapporto al debito pubblico è salito al 15.4 per cento, dal 2.3 per cento quattro anni prima.

Da questi numeri ben si capisce che l’intervento della Bce sui titoli pubblici non è stato inferiore a quello della Fed; semmai è stato superiore. Sia perché i dati europei sono sottostimati, in quanto né i Paesi Bassi né l’Irlanda hanno comunicato le loro statistiche alle autorità comunitarie. Sia perché andrebbero considerate anche le ricadute dei prestiti a condizioni straordinarie effettuati dalla Bce al sistema bancario (dal primo Ltro di inizi 2012 all’ultimo Tltro del marzo 2017), prestiti che hanno fornito copiose risorse finanziarie utilizzate in larga parte per comperare titoli pubblici, ossia i titoli di più alta qualità all’interno di ciascun sistema finanziario e funzionanti da pivot per lo stesso. I dati aggregati dell’Eurozona nascondono realtà molto differenziate per singoli stati membri. Infatti, stabilito l’ammontare assoluto degli acquisti della Bce, i fondi sono stati ripartiti in rapporto alla partecipazione di ciascun paese al capitale della Bce stessa.

Quindi il sollievo per le finanze pubbliche di ogni stato è direttamente proporzionale a tale partecipazione e inversamente all’ammontare assoluto del debito pubblico. Cosicché, tra le grandi economie dell’Eurozona, la Germania ne ha più beneficiato: la quota del suo debito pubblico in pancia alla Bce è salita dallo 0.6 per cento di fine 2014 al 17.7 per cento a fine 2018, con un incremento di 17.1 punti percentuali. Seguita dalla Spagna, con un aumento dal 3.9 per cento al 19.3 per cento, ossia di +15.5 punti; dalla Francia, passata dal 2.2 per cento al 15.5 per cento (+13.4 punti); e, ultima, dall’Italia, salita dal 5.0 per cento al 17.3 per cento (+12.3 punti). La monetizzazione del debito pubblico, come si diceva sopra, ha beneficiato i conti pubblici sia abbassando il costo del debito sia generando un flusso di cedole riversate da ciascuna banca centrale ai rispettivi ministeri del Tesoro.

Il risparmio sulla spesa per interessi è stimabile applicando al livello del debito attuale il costo medio del debito pre-crisi e facendo la differenza con la spesa oggi realmente sostenuta. Un metodo che implica una sottostima del beneficio, perché considera il livello del debito effettivo, e non quello che si sarebbe avuto se i tassi fossero rimasti invariati generando deficit molto più elevati.

Per gli Usa il costo medio del debito è sceso dal 6.57 per cento del 2007 a 3.72 per cento del 2017, cosicché il vantaggio per il Tesoro americano è di 753 miliardi di dollari annui, cioè 3.9 punti di Pil. Per il Giappone il risparmio è stato più contenuto perché il costo medio del debito era già molto ridotto (1.06 per cento) ed è sceso quindi meno (a 0.71 per cento): 4.5 trilioni di yen risparmiati all’anno di spesa per interessi. Venendo all’area euro, in Germania il costo medio del debito è passato dal 2.67 per cento nel 2007 all’1.5 per cento nel 2018, generando un risparmio annuo di 22.6 miliardi di euro (a fronte di una spesa eff ettiva di 31.0). La Francia ha visto calare il costo medio del debito dal 4.17 per cento nel 2007 all’1.73 per cento nel 2018, con un risparmio nella spesa di 56.5 miliardi di euro l’anno (contro una spesa eff ettiva di 40 miliardi).

La diminuzione del costo medio del debito in Italia è stata ancora più rilevante: dal 4.77 per cento del 2007 al 2.80 per cento del 2018, con un risparmio annuo di 45.8 miliardi annui nella spesa per interessi. Infine, la Spagna ha sperimentato una diminuzione del costo medio del debito dal 4.39 per cento al 2.54 per cento, conseguendo un risparmio annuo di 51.5 miliardi (contro una spesa di 29.8 miliardi). La monetizzazione del debito pubblico non solo ha fatto e fa risparmiare somme cospicue sulla spesa per interessi ma, riportando una fetta ampia di quel debito dentro l’alveo delle istituzioni pubbliche, permette di retrocedere parte di quella spesa ai governi, liberando così ulteriori spazi per la politica di bilancio.

Le statistiche sulla retrocessione sono carenti, sia perché essa prende forme diverse a seconda degli statuti e delle regole istituzionali (tassazione sugli utili delle banche centrali, distribuzione degli utili stessi, restituzione degli interessi) sia perché nel coacervo degli incassi per redditi di capitale si distinguono gli interessi incassati ma non la loro origine.

Per rimediare a questa lacuna si possono seguire due strade: usare le statistiche esistenti e prendere la variazione nel tempo della voce “interessi incassati” come proxy per difetto degli interessi retrocessi; oppure applicare il costo medio del debito all’ammontare di debito pubblico in pancia alle banche centrali, ipotizzando implicitamente che il portafoglio di queste ultime sia specchio fedele della composizione per scadenze del totale del debito pubblico. Evenienza non veritiera, avendo il primo una durata maggiore del secondo; pertanto l’ipotesi genera una stima per difetto degli interessi retrocessi. La prima strada conduce a risultati non univoci, proprio perché anche l’ammontare degli interessi incassati è influenzato dall’andamento del costo del debito, riducendosi insieme a questo ultimo, mentre cresce con l’aumento della quota di esso nel bilancio delle banche centrali e del livello del debito stesso.

Cosicché negli Usa tra il 2007 e il 2017 si osserva un calo di 28.5 miliardi di dollari di interessi incassati; sebbene questa variazione diventi positiva per 11.6 miliardi se inquadriamo il 2012-2017, cioè il periodo di maggiore espansione dei titoli federali nel bilancio della Fed. In Giappone si hanno risultati simili: -2.2 trilioni di yen gli incassi da interessi nei conti del governo tra 2007 e 2017 e +1.9 tra 2012 e 2017.

Nei paesi dell’Eurozona i risultati del massiccio acquisto di titoli pubblici sugli incassi di interessi sono trascurabili o addirittura di segno contrario all’atteso, evidentemente prevalendo l’effetto di calo del costo del debito. La seconda strada porta, invece, ai risultati attesi. Gli interessi retrocedibili, calcolati sulla base delle quote delle banche centrali sui debiti pubblici, passano negli Usa da 26.7 miliardi di dollari del 2008 a 86.7 del 2017; in Giappone si è andati da 499 miliardi di yen a fine 2009 a 2495 a fine 2017; in Germania da 271 milioni di euro a fine 2014 a 5.5 miliardi di fine 2018; in Francia da un miliardo a 6.2; in Italia da 3.7 a 11.2 miliardi; in Spagna da 1.4 a 5.8 miliardi. In ciascuno di questi paesi il deficit pubblico si riduce del medesimo ammontare. Insomma, la politica monetaria iperespansiva ha notevolmente allargato gli spazi di manovra dei bilanci pubblici. Ora che si riaffaccia la prospettiva di ulteriori interventi delle banche centrali per allentare le redini monetarie, tali spazi sono destinati, seppure marginalmente, ad ampliarsi ancora. Sta ai governi sfruttarli appieno, volgendo le politiche di bilancio verso il sostegno dell’economia, là dove i conti pubblici più lo consentono.

Nel forum di Sintra organizzato dalla Bce nel 2019 sono state fornite ai governi dell’Eurozona non più solo le ragioni di opportunità politica, ma anche le fondamenta teoriche per agire.

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