Skip to content

esportazioni

Tutte le teorie zombies da sfatare sull’euro

L'articolo di Giuseppe Capuano, economista

La teoria economica non è una scienza esatta e non ha valenza universale e il solo ricorso alla matematica, pur importante, non la rende una disciplina propriamente scientifica. L’economia, quindi, dovrebbe usare la matematica, non tanto per imitare le scienze esatte, quanto perché la maggior parte delle questioni di cui essa affronta e tratta, utilizza statistiche di vario tipo che rappresentano solo il mezzo e lo strumento utile per conseguire il fine del rispetto della fede pubblica nell’interesse dei cittadini-consumatori.

Se Erasmo da Rotterdam avesse scritto oggi il suo “Elogio della Follia” probabilmente avrebbe commentato in maniera sarcastica e pungente anche la figura dell’economista alla stessa stregua dei filosofi, dei saggi del suo tempo, evidenziando tutti i limiti degli economisti nel concepire l’economia come una scienza esatta.

Da qui occorre guardarsi da ciò che P. Krugman ha definito le “teorie zombies” la cui idea centrale è che ci sono teorie economiche che risultano vincenti in un determinato periodo storico. Ad un certo punto la realtà si scontra con queste ultime ma, nonostante tutto, esse sopravvivono come “zombies”.

Come affermava J.M.Keynes “le idee degli economisti e dei filosofi politici, …., sono più potenti di quanto comunemente si creda. In realtà il mondo è governato da poco altro. Gli uomini pratici,…., sono generalmente schiavi di qualche economista defunto”, e noi potremmo aggiungere “e delle loro teorie zombies che sopravvivono a se stesse”.

Nello specifico, uno studio (ma ve ne sono molti altri) del Cep (Centre for European Policy) di Friburgo in Germania ha calcolato che le perdite sostenute in Italia dall’introduzione dell’euro nel 1999 al 2017 ammontano a 4,38 miliardi di euro complessivi, praticamente oltre 73mila euro per abitante. Questo ennesimo lavoro fornisce alcuni dati che continuano a dare supporto numerico alla tesi secondo la quale “l’introduzione dell’euro è la causa della bassa o inesistente crescita dell’Italia negli ultimi venti anni”.

A pieno titolo potremmo inserire questa tesi nel gruppo (molto folto) delle “teorie zombies”. A mio avviso la tesi che “l’euro ha determinato la bassa crescita dell’Italia negli ultimi venti anni e una conseguente riduzione del PIL pro-capite nazionale”, non ha alcuna base “scientifica” e che non esiste nessuna dimostrazione tecnicamente rigorosa dell’esistenza di una robusta relazione “causa/effetto” tra i due fenomeni (bassa crescita e euro).

La mia è solo una considerazione di tipo tecnico da economista: nelle valutazioni di impatto di un determinato fenomeno come per esempio delle leggi di incentivazione alle imprese, di particolari riforme, su investimenti pubblici etc. è difficile quantificare esattamente il peso che i singoli fattori (causa) hanno nella determinazione dell’impatto (effetto). Nello specifico: lo studio mette in relazione un dato certo (la riduzione dl PIL pro capite in un determinato periodo, i venti anni dell’introduzione dell’euro) e l’euro. Ma non si dimostra assolutamente che l’euro è l’unica causa e/o se ci sono altre concause ovvero l’euro è neutrale. Dico inoltre che nei primi 7 anni dell’introduzione dell’euro l’Italia è cresciuta in termini di PIL. Non dimentichiamo che a partire dal 2008 il nostro Paese (e non solo) ha subito la più forte crisi (dove l’euro era totalmente estraneo) da quella del ’29. Anzi, grazie all’euro abbiamo limitato i danni in termini di crescita e occupazione.

La causa della bassa crescita è un’altra. A partire da quegli anni, l’Europa è stata sottoposta alla cura dell’austerità, seguendo le ricette indicate dal Fondo monetario internazionale e approvate dalla Commissione Ue., secondo la “teoria del rigore espansivo” (altra “teoria zombies) cioè più tasse e meno spesa pubblica favoriscono la crescita secondo la tesi che un articolato programma di austerità, attuato con tagli di spesa e rigore di bilancio, non solo non avrebbe provocato la depressione ma avrebbe addirittura potuto avere effetti di stimolo all’economia (rigore fiscale espansivo).

Eppure i debiti pubblici sono aumentati di più proprio dove più severa è stata l’applicazione della cura. In molti paesi si è cioè innestato un meccanismo perverso: le politiche fiscali restrittive, deprimendo l’attività economica e generando disoccupazione, abbattono ancor più le entrate fiscali (legate al minore reddito prodotto), aggravando, cioè, lo scenario macroeconomico interno.

Quando anche in Europa si diffuse la crisi economico-finanziaria, al Fondo Monetario Internazionale si ritenne che le politiche espansive potessero dare solo una leggera spinta alla ripresa. Difatti, non fu data molta attenzione ai risultati di alcune ricerche empiriche che spiegavano come, a seguito di crisi finanziarie, i moltiplicatori fossero particolarmente alti. I dubbi sono incominciati a sorgere solo quando a seguito delle crisi dei debiti sovrani dei diversi paesi europei con severe politiche di austerità, si sono cominciate ad aggravare le condizioni di stagnazione/depressione. Da quel momento in poi presso l’FMI (in particolare nel biennio 2014/2015) hanno avuto inizio delle indagini che hanno trovato valori dei moltiplicatori più elevati di quelli calcolati in precedenza, giungendo recentemente ad ammettere di averli notevolmente sottostimati, smentendo in pratica quanto già perseguito in precedenza, ma il danno era stato già fatto.

Altra “teoria zombies” è che a causa dell’euro l’Italia ha perso di competitività deprimendo la crescita. Al contrario, l’unico dato positivo di questo ventennio è stata la costante crescita delle nostre esportazioni che hanno sostenuto o reso meno drammatica la flebile crescita italiana. Le esportazioni italiane, che pesano attualmente per circa il 30% del PIL sono cresciute nonostante l’impossibilità di svalutazioni competitive (cosa possibile nel passato con la lira) e grazie all’accresciuta competitività del nostro sistema imprenditoriale. Solo a titolo esemplificativo si rileva che le esportazioni di merci dell’Italia sono passate dai 398,870 miliardi di euro del 2014 ai 462,899 miliardi di euro del 2018 contro, rispettivamente, i 356,939 miliardi di euro e i 423,998 miliardi di euro delle importazioni (Fonte: elaborazioni MISE su dati ISTAT).

Questo aspetto è un altro fattore a favore dell’euro e contro chi sostiene che l’impossibilità di svalutazioni monetarie impattasse negativamente sulla nostra bilancia commerciale che, al contrario, è in costante surplus grazie all’aumento in valore assoluto e in percentuale delle esportazioni e alla robustezza dell’euro nei confronti del dollaro che ha consentito di contenere i costi delle materie prime (in primis il petrolio) di cui l’Italia è fortemente acquirente.
Quanto in precedenza sostenuto, però, non significa che l’euro, come fu concepito nel 1993, vada bene e che non occorra ripensare alla sua governance (in merito sono state già fatte alcune proposte in altri miei articoli) che darebbe maggiore stabilità economica e monetaria all’Unione europea creando i presupposti per una crescita più equilibrata tra tutti i Paesi membri (convergenza e coesione), con il risultato di piena sostenibilità dell’euro.

Al contrario, con lo status quo, assisteremo nel tempo alla sua dissoluzione con un forte impatto negativo per tutta l’economia europea (Germania compresa) e non solo per i Paesi del Sud Europa, con fuga di capitali esteri e domestici, un aumento dei tassi di interesse, dell’inflazione e della disoccupazione e alla condanna a una stagnazione “secolare” dell’economia europea rispetto alle altre economie “driver” del Mondo.

Giuseppe Capuano, economista, attualmente dirigente del ministero dello Sviluppo Economico. Le opinioni espresse nell’articolo non
coinvolgono assolutamente il MISE e sono strettamente personali.

Torna su