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No Tav, No Tap e non solo. Tutti i no che dicono sì alla decrescita

Pubblichiamo un estratto del libro di Alberto Brambilla e Stefano Cianciotta "I «no» che fanno la decrescita" edito da Guerini e associati

Il quadro delle contestazioni dà la misura della paralisi che attraversa tutta l’Italia, e che rischiava di essere molto più pesante se non fosse stata realizzata l’Alta Velocità ferroviaria, intuizione di Lorenzo Necci, che fu palesemente osteggiata dietro ai soliti discorsi sulla corruzione e gli sprechi.

E che solo nel 2017 è arrivata (in realtà a bassa velocità, nell’ultimo tratto) fino a Salerno, città che già a metà Ottocento il letterato francese Ernest Renan definì «l’ultimo confine della civiltà verso il Sud». Ma perché in Italia negli ultimi dieci anni si è assistito a un aumento così impetuoso della opposizione dei territori alle infrastrutture e alle opere? E soprattutto in questa corsa a realizzare poco o nulla, chi ci guadagna? Vanificare miliardi di investimenti e potenziali posti di lavoro (senza considerare lo sviluppo in innovazione e ricerca in settori determinanti per la crescita come quello energetico), chi avvantaggia? L’epopea dei movimenti con l’infausto prefisso ha subìto severe lezioni dalla realtà. Il movimento No Tav contrastava la costruzione della ferrovia italo-francese Torino-Lione anche con metodi da guerriglia urbana adattata alla montagna. Dopo una decade di militanza, l’ala insurrezionalista del movimento contro «l’alta velocità» in Val di Susa ha abbandonato la causa in polemica, sentendosi strumentalizzata dai valligiani.

Della lotta restano i vessilli, la pubblicistica e i gadget disponibili in molti centri sociali italiani. Le parole, gli slogan, la semantica tuttavia sono stati essenziali per creare una narrazione epica. Ma l’iconico movimento sbagliava fin dalla sigla, fuorviante: non si tratta infatti di «alta velocità » ma di una linea mista a capacità elevata di flussi di merci, ovvero che permette il transito di un numero maggiore di treni, inserita nel quadro di una rete trans-europea. Il progetto si è molto ridimensionato, anche in termini di costo, da 25 miliardi iniziali circa a 9 miliardi, ripartiti in quote di un terzo tra Italia, Francia e Unione europea, e si limita a migliorare l’infrastruttura esistente. Restarne fuori comprometterebbe la competitività economica del Piemonte. I simpatizzanti No Tav si sono ben guardati dal fare questa distinzione essenziale5 perché avrebbe fatto apparire l’opera necessaria per un Paese esportatore, e non un inutile banchetto apparecchiato per la solita ingorda casta affaristico-mafiosa.

La causa ambientalista è stata poi concimata con allarmismo preconcetto, paventando per anni la presenza di amianto nei terreni degli scavi – cosa smentita nell’aprile 2017 con la pubblicazione dei test dell’Agenzia regionale per la Protezione dell’Ambiente Piemonte. Chiediamo: in un contesto in cui la costruzione di ferrovie è in declino dagli anni Settanta, non sarebbe stato coerente ai fini dello strombazzato «bene comune» – e ambientalista ai fini del minore impatto possibile delle attività antropiche – aumentare le infrastrutture ferroviarie per ridurre i trasporti stradali e aerei la cui quota di mercato e di emissioni di CO2 è in aumento costante da decenni? L’esigenza di creare una rete ferroviaria intra-europea, di cui la «Tav» è parte, nasceva anche da questa valutazione.

In una società che sta attraversando una profonda fase di trasformazione, i fenomeni come quello del Nimby sono la punta dell’iceberg di un disagio che investe il tema della rappresentanza. Per rispondere a questa crisi, alcuni Paesi europei hanno da tempo e progressivamente adottato strategie, pratiche, modalità nuove di dialogo tra i diversi tessuti vitali della società, come dimostrano gli esempi della Danimarca, nella quale sta per entrare in funzione il termovalorizzatore Amager Resource Center, sul cui tetto sarà possibile sciare, o ancora il caso nel 2011 delle cittadine svedesi di Oskarshamn e Östhammar che si sono a lungo contese la realizzazione di un deposito di scorie nucleari, o quello della Francia, che per legge ha istituito il delegato alla comunicazione e alla trasparenza in cantiere.

L’Italia, invece, dimostra la sua arretratezza culturale. Nell’incapacità di cercare nuove modalità di dialogo e di confronto, il fenomeno Nimby si è progressivamente inasprito e la distanza tra gli attori coinvolti (impresa, cittadinanza, politica) è radicalmente aumentata. L’apparato burocratico italiano, l’impianto autorizzativo e regolatorio sono farraginosi: duplicano e moltiplicano se stessi, generando un caos incomprensibile in particolare per gli investitori stranieri. Le competenze scientifiche e tecniche dei funzionari delle amministrazioni (in particolare delle piccole amministrazioni locali) sono inadeguate rispetto alla complessità dei progetti. In questo marasma, fatto di mancanza di competenze, di incertezza burocratica, di lungaggini istituzionali, il ricorso alla magistratura è diventato quasi una prassi abituale per dirimere controversie che troverebbero migliore risposta dall’esame tecnico dei progetti. Tuttavia delle buone pratiche da perseguire esistono anche in Italia, come i Rab del Gruppo Hera, che sono degli organismi consultivi di quartiere guidati dai cittadini e promossi dalla utility emiliana, o la scelta di Terna di negoziare con i territori la progettazione degli impianti.

Dopo la riforma del 2001 la nuova competenza ripartita in tema di energia e infrastrutture tra Stato e Regioni ha determinato 1.700 ricorsi. Le imprese, inoltre, devono imparare a comunicare, anche in rete; considerare il valore del confronto con i cittadini «incompetenti»; estendere la consapevolezza su questi temi dai vertici fino ai tecnici. La politica, poi, deve tornare a svolgere quel ruolo di sintesi tra interessi diversi, a cui è venuta meno negli ultimi anni, caratterizzati invece dal ricorso sistematico alla visione di breve periodo. Questa prassi è scandita nell’acronimo Nimto (Not In My Term of Office, «non nel mio mandato»), e riguarda l’atteggiamento pilatesco di non assumersi responsabilità o di assecondare il sentimento di una popolazione solitamente poco informata (non per sua esclusiva
colpa) e incline a credere a qualsiasi cosa.

Il 17 aprile 2016 è fallito – perché non ha raggiunto il quorum – il referendum per abrogare la norma che consente di continuare l’attività produttiva dei giacimenti di idrocarburi che si trovano entro le 12 miglia dalla costa italiana fino alla durata di vita del campo. Era promosso in chiave antigovernativa, contro il governo di Matteo Renzi, da dieci Regioni (Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Marche, Molise, Puglia, Sardegna – di centrosinistra – e Liguria e Veneto – di centrodestra). L’esito è stato il momento della disfatta del movimento No Triv, contro le «trivelle». La propaganda è stata speculare a quella della «Tav», cioè equivoca: non si trattava di impedire nuove «trivellazioni», nuovi «buchi», o meglio perforazioni a mare, ma di evitare che gli impianti esistenti continuassero a lavorare anche dopo la fine delle concessioni, lasciando così nel sottosuolo – o ad altri Paesi, come la dirimpettaia Croazia nel caso dei giacimenti adriatici – tutti gli idrocarburi non ancora estratti. Uno spreco sull’altare del principio di precauzione. Si tratta poi soprattutto di gas naturale e soltanto in minima parte di petrolio, a differenza del messaggio propalato in campagna referendaria dai movimenti e da esponenti politici in cerca di facile consenso. In caso di superamento del quorum si sarebbe prostrata l’intera filiera dell’estrazione degli idrocarburi dell’Emilia-Romagna, regione che non promuoveva il referendum ma che ne sarebbe stata penalizzata più di tutte. Dalla metà del Novecento, grazie a Enrico Mattei, la roccaforte del settore estrattivo è in provincia di Ravenna. La filiera dell’industria gasiera del ravennate dà da vivere a oltre 5.000 famiglie e riguarda circa 50 aziende tra multinazionali, che vendono macchinari e servizi per l’estrazione in tutto il mondo come eccellenza ingegneristica, e piccole imprese, che sono quintessenziali alla manutenzione e alla costruzione dei macchinari stessi (officine, carpenterie ecc.), oltre a una miriade di subfornitori e all’indotto. A livello regionale i lavoratori del settore, comprese aziende affini allargate per esempio alla produzione di valvole, sono 100.000, secondo Unioncamere.

La novità fu che a opporsi ai movimenti contrari e dal pedigree ambientalista – Greenpeace ha assaltato una piattaforma Eni a meno di un mese dal voto – si è creato un movimento di lavoratori sui social network in cui si bollava il referendum come «sbagliato e strumentale». «L’unico ‘crimine’ che abbiamo compiuto negli ultimi trent’anni» si leggeva, «è quello di aver contribuito, con la produzione di gas nazionale, alla metanizzazione del Paese e ad accendere la fiammella nei fornelli e nelle caldaie di milioni di italiani». I lavoratori hanno supplito a una certa ritrosia dell’industria a difendersi a viso aperto, con le ragioni dell’economia e dell’efficienza, in favore del consumatore, cioè tutti noi. Sarebbe bastato produrre prove, come ha fatto il Nobel per la Fisica Carlo Rubbia, che ha lavorato nel mondo dell’energia per un quarto di secolo, in un’audizione al Senato.

Vale la pena riportare dei passaggi di questo monumento alla chiarezza: Pensiamo, in maniera falsa, che se non facciamo nulla il clima della terra resterebbe costante. Non è assolutamente vero. […] Negli ultimi duemila anni la temperatura della terra è cambiata profondamente. Ai tempi dei romani Annibale ha attraversato le Alpi con gli elefanti. Oggi non potrebbe venire. Perché oggi la temperatura della terra è inferiore a quella dei romani di 1° e mezzo. […] Negli ultimi cento anni ci sono stati dei cambiamenti che sono venuti ben prima dell’effetto antropogenico, dell’effetto serra e così via. Per esempio negli anni Quaranta ci fu un cambiamento sostanziale. Poi c’è stato un cambiamento che in qualche modo è considerato la presenza dell’uomo: quando sono nato io (1934) la popolazione della terra era 3,7 volte più piccola di oggi e il consumo energetico primario è aumentato di undici volte nella mia vita. Una cosa impressionante. […] Dal 2000 al 2014 la temperatura della terra non è aumentata – è diminuita di 0,2°: non abbiamo osservato alcun cambiamento climatico. […] Nonostante questo ci troviamo di fronte alla questione assolutamente drammatica che le emissioni di CO2 stanno aumentando in maniera esponenziale e non ha mostrato una tendenza a ridursi. […] L’unico Paese nel mondo che è riuscito a ridurre le dimensioni di CO2 è stato, paradossalmente, gli Stati Uniti, non l’Europa o la Cina. Per quale motivo? C’è stato lo sviluppo del gas naturale che adesso sta rimpiazzando le emissioni di CO2 dovute al carbone. Il costo dell’energia elettrica in America è due volte il costo dell’Europa perché in America si stanno sviluppando delle tecnologie che hanno permesso di cambiare le cose.

Il messaggio di Rubbia è dunque chiaro: «Soltanto con lo sviluppo tecnologico possiamo competere con gli altri Paesi, non con misure di coercizione come quelle dell’Unione europea, di impegno politico formale senza dietro un’idea o una soluzione. In America c’è un progresso effettivo nel vantaggio tecnologico che crea business e posti di lavoro. […] Oggi in Europa il costo delle energie rinnovabili è superiore a quello del gas naturale». Insomma ci voleva un luminare a fare luce visto che l’industria si nasconde, lasciando correre palesi falsità che poi le si ritorcono contro.

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