Com’è stato usato il capitale dalle aziende italiane in passato? Come lo usano oggi? Si differenziano in questo le aziende pubbliche e quelle private?
Domande non di poco conto cui ha tentato di dare risposte Fulvio Coltorti (nella foto), economista e docente all’università Cattolica di Milano, durante un recente seminario in ateneo dedicato a “Concorrenza, politiche e capitalismo in Italia”.
CIFRE E RUOLO DELLO STATO NELL’INDUSTRIA ITALIANA
Dal 1948 al 2022, evidenzia l’ex capo dell’ufficio studi di Mediobanca, nell’industria ha prevalso lo Stato che si è trovato a dover sopperire all’inadeguatezza del settore privato. Basta guardare ai numeri: nel 1948 gli immobilizzi tecnici delle società controllate dallo Stato superavano i 300 miliardi di lire mentre nelle public companies si attestavano intorno ai 60 miliardi e tra i privati a 50 miliardi.
Nel 2022 l’analogo conteggio sull’attivo totale netto è stato pari a circa 210 miliardi di euro nello Stato e invece i livelli sono stati più bassi tra le medie imprese (poco sotto i 150 miliardi) e tra gli investitori esteri (circa 170 miliardi).
Quando poi è successo che i privati italiani abbiano venduto le aziende agli investitori esteri hanno subito un forte ridimensionamento; al contrario ha dimostrato di resistere lo Stato laddove mantiene la proprietà come nel caso di alcune imprese fondamentali (Enel ed Eni). Ad esempio – come si evince da elaborazioni su dati Mediobanca – nel 1991 le aziende pubbliche vantavano un fatturato di 75 miliardi e quelle private di 55 miliardi, tre anni dopo il raffronto era a 82-67 mentre nel 1999 si era verificato il sorpasso con aziende pubbliche a 76 miliardi e quelle private a 103 miliardi.
Nel 2004, invece, c’è stato il controsorpasso con le società pubbliche che hanno superato il fatturato di quelle private (111 a 105), differenza che è aumentata cinque anni dopo (200 miliardi a fronte di 88 miliardi) per poi ridimensionarsi nel 2016 (149 a 29). Poco dirimente, in questo discorso, il contributo delle imprese estere, eccezion fatta per il 2016 con fatturato a quota 53 miliardi.
COME INVESTONO LE AZIENDE, DIFFERENZE FRA PUBBLICHE E PRIVATE
In Italia, sostiene Coltorti, la finanza prevale sull’economia reale e determina i criteri delle scelte strategiche. Come si nota esaminando i bilanci al 31 dicembre scorso, Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno investito alte cifre del proprio capitale, rispettivamente 966 miliardi e 855 miliardi; ben diverso il caso di aziende pubbliche come Enel (182 miliardi) ed Eni (112 miliardi) o come Stellantis (110 miliardi).
Si tratta di dati interessanti perché, come noto, l’impresa è efficiente quando usa in modo efficiente il capitale che la comunità le consente di adoperare. Ci sono impieghi che creano valore, come le fabbriche, i macchinari, le licenze, i brevetti mentre la cassa, fino a quando rimane tale, non produce nulla al di fuori di una rendita (che peraltro è soggetta a rischio).
Esistono poi gli attivi intangibili che non corrispondono a nulla di direttamente produttivo e che nascono soprattutto in occasione delle acquisizioni e delle fusioni, per esempio nel caso in cui si acquistino società che poi si consolidano e si scopre che il saldo tra gli attivi e i passivi acquisiti con queste operazioni è molto inferiore al prezzo pagato.
Ebbene, sempre tramite un’elaborazione su dati di bilancio al 31 dicembre 2022, ci si accorge – emerge dall’indagine di Coltorti, che tra le grandi imprese private prevalgono gli impieghi improduttivi: infatti fra le prime cinque (Stellantis, Tim, Essilor Luxottica, Prysmian, Pirelli)) gli intangibili sono pari al 52% del capitale investito e i finanziari sono il 29,5%; solo il 18,5% è capitale produttivo. Praticamente opposto il discorso nelle prime quattro grandi imprese pubbliche (Enel, Eni, Leonardo, ST) dove i capitali produttivi sono il 57,2% del totale, gli intangibili il 13,8% e i finanziari il 29%. Guardando infine alle medie imprese si nota che i capitali produttivi salgono al 62,4% del totale con gli intangibili che si fermano all’8,5% e i finanziari in linea con le grandi imprese al 29,1%.