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Salario minimo legale: pregi (pochi) e difetti (tanti)

Che cosa va e che cosa non va nella proposta di legge delle opposizioni sul salario minimo legale

Il salario minimo legale ha fatto il botto. Nonostante qualche polemica marginale tra i protagonisti, si è trovato un accordo (a prendere per buona la conferenza stampa congiunta) tra le opposizioni, che presenteranno alla Camera un progetto di legge (pdl) sulla materia a firma degli esponenti del Pd, M5S, Sinistra e Verdi, Azione. Solo Italia Viva ha preso le debite distanze Per quanto riguarda i contenuti possiamo fidarci di un comunicato di Carlo Calenda che riproduciamo di seguito.

Depositeremo a breve, insieme alle altre opposizioni, la nostra proposta di Legge per l’introduzione del salario minimo legale.

Un provvedimento che riguarda circa 3,5 milioni di lavoratori dipendenti e che prevede:

– Un salario minimo a 9 euro l’ora;

– l’adeguamento da parte dei sindacati dei rispettivi contratti nazionali entro novembre 2024;

– l’istituzione in Legge di bilancio di un fondo per aiutare le imprese a rispettare i nuovi livelli di retribuzione;

– l’introduzione di una commissione ad hoc che verifichi e monitori l’andamento del salario minimo.

Introdurre questa misura è urgente, soprattutto perché l’inflazione ha colpito duramente i lavoratori poveri, sempre più in difficoltà per l’aumento del costo della vita. Peraltro, con questa proposta ci allineiamo con quanto già succede in altri Paesi europei (Germania, Francia, Spagna, Gran Bretagna…).

La proposta di salario minimo rappresenta un segnale significativo per i lavoratori. In Italia, chi è povero è sempre più povero e questo dato cresce in maniera allarmante. Bisogna quindi agire urgentemente per risolvere il problema del lavoro sottopagato. È necessario mettere fine alle condizioni di sfruttamento di cui troppi cittadini italiani sono vittime.

Il documento contiene alcune omissioni importanti e affermazioni discutibili. Non si precisa se i 9 euro orari sono lordi o netti, una “piccola differenza” che interviene pesantemente sui costi dell’operazione. Non è una dimenticanza, ma un’ambiguità perché nel dibattito questo aspetto non è stato chiarito del tutto tra le diverse forze politiche. Poiché siamo propensi a dare atto di un minimo di “logica in quella follia”, ci assumiamo le responsabilità di optare per la soluzione al lordo. La tabella mette in evidenza quanti sarebbero i lavoratori interessati sotto le soglie di cui si discute e chiarisce che i beneficiari potrebbero essere meno dei 3,5 milioni ipotizzati da Calenda.

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Quanto all’allineamento con i principali Paesi europei (di cui hanno un salario minimo legale 21 su 27) è vero solo in parte. La Direttiva dispone l’esigenza di salari dignitosi, un obiettivo che può essere raggiunto sia con la contrattazione collettiva (specie nei Paesi che, come l’Italia vantano un elevato tasso di copertura), sia con un’apposita legge. Nessuno sembra prestare attenzione a un semplice dato di fatto: è molto complicato fare accomodare due deretani sulla medesima sedia. Dove è istituito un salario minimo legale non vi è traccia o ha un ruolo secondario, rispetto ad altri livelli di contrattazione, il contratto nazionale di categoria, che invece svolge un ruolo in Italia in continuità con il modello corporativo. Infatti, molte platee di riferimento risalgono a quando la categoria aveva un rilievo ontologico ed una definizione di carattere amministrativo.

Per mettere subito – come si suol dire – i piedi nel piatto, il salario minimo legale e nazionale (nonché intercategoriale a quanto è dato capire), presenta un solo vantaggio: quello di ridimensionare, appunto, il contratto nazionale fino a sostituirne la funzione nell’ambito delle relazioni industriali. Quando il tema del salario minimo fu portato all’attenzione del Senato nella scorsa legislatura, con il testo base di Nunzia Catalfo in qualità di presidente della Commissione lavoro, l’INAPP dimostrò, durante un’audizione, che 9 euro rappresentavano l’87% del salario mediano nazionale. Va da sé che, con tale base salariale resa obbligatoria per legge, spazi reali di contrattazione verrebbero meno a livello nazionale mentre potrebbero essere recuperati solo attraverso la contrattazione decentrata e di prossimità in relazione con gli incrementi della produttività (quanti lamentano che i salari in Italia sono bassi dimenticano di aggiungere che la produttività del lavoro è piatta da quasi trent’anni), per di più col vantaggio dei benefici fiscali previsti. Dunque l’introduzione del salario orario minimo potrebbe ridimensionare il ruolo della contrattazione nazionale di categoria, proprio per i limitati margini economici disponibili al di sopra dell’importo dovuto per legge. Ma i dati INAPP che fecero “tremare le vene ai polsi” riguardavano i costi per il sistema delle imprese della introduzione del salario minimo orario (sia al netto che al lordo).  Si tratterebbe di 34 miliardi a favore del 52% degli occupati nell’ipotesi di 9 euro netti a fronte di 4 miliardi nell’ipotesi di 9 euro lordi. Nel primo caso i 9 euro netti (13,3) sarebbero pari al 119% salario mediano nazionale; mentre i 9 euro lordi (9,7) si limiterebbero – come già ricordato – all’ 87%.

Come potrebbero le imprese accollarsi per legge un onere siffatto? Bontà del fronte delle opposizioni, i contratti collettivi avrebbero più di un anno (novembre 2024) per adeguarsi e potrebbero contare su di un fondo stanziato nella legge di bilancio che le aiuti “a rispettare i nuovi livelli di retribuzione”. Un altro caso di quella “nazionalizzazione” della retribuzione che è la nuova frontiera del socialismo all’italiana. Ormai ci pensa lo Stato: copre di incentivi le aziende perché assumano; fiscalizza una quota crescente di contribuzione previdenziale per diminuire il “cuneo” a favore dei lavoratori; eroga l’assegno di inclusione. Per non parlare dei sussidi, degli aiuti e dei ristori (a proposito: non è vero che è aumentata la povertà). Viene il dubbio che l’ultima parte del post sia stata suggerita da Maurizio Landini, visto che l’approccio è il suo. Se si aggiunge anche il salario minimo legale, le politiche pubbliche prenderanno il sopravvento sulla contrattazione e ne condizioneranno l’indirizzo, gli oneri. Poi c’è un altro problema non di poco conto. Si sono accorti i nuovi alleati dello smig che, in tempi in cui l’inflazione è tornata a farsi viva minacciosa, con il loro pdl introdurrebbero un’altra scala mobile, inclusa e incorporata nel complesso della retribuzione le cui variazioni periodiche sarebbero affidate ad un’apposita commissione?

In sostanza anche i rinnovi contrattuali diventerebbero materia di un’operazione di carattere esterno condizionata da pressioni politiche. Sarebbe molto più facile, per i sindacati, sottoporre le loro rivendicazioni all’organo politico che tiene sotto controllo il salario minimo, piuttosto che impegnarsi in un negoziato con le controparti. I componenti della commissione mandano il conto allo Stato; gli imprenditori all’assemblea degli azionisti. È facile comprendere che, se i 3/5 della retribuzione saranno definiti da procedure di mano pubblica, anche le relazioni industriali verranno, prima o poi, regolate da un algoritmo.

 

Articolo pubblicato su bollettinoadapt.it

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