skip to Main Content

Roma e non solo. Tutti i conti dissestati dei comuni

Che cosa emerge dall’ultima indagine della Sezione Autonomie della Corte dei conti sulla gestione finanziaria degli Enti Locali? I rischio dissesto dei comuni. L'approfondimento di Antonio Satta su Milano Finanza

 

Per la Lega, giura Matteo Salvini, non ci sono Comuni di serie A e di serie B. Nemmeno se della prima categoria fa parte il Comune che qualche specificità in più può effettivamente vantarla, ossia Roma, la Capitale d’Italia.

Al di là delle ragioni dei due schieramenti (entrambi di maggioranza, le opposizioni per lo più stanno a guardare), intorno alle quali si continuerà a battagliare, visto che le norme stralciate potranno essere ripresentate durante l’iter parlamentare di conversione del decreto, la querelle ha avuto almeno il merito di riaccendere i riflettori su una questione abbastanza trascurata, come lamenta l’ultima indagine della Sezione Autonomie della Corte dei conti sulla gestione finanziaria degli Enti Locali: il rischio dissesto dei Comuni.

Il fatto, come dimostra lo stesso rapporto, che il numero di enti locali in disavanzo si sia ridotto, può indurre a conclusioni ottimistiche troppo affrettate. È vero che la quasi totalità degli enti presi in esame (10 città metropolitane, 53 Province, 4.924 Comuni) ha riportato risultati di gestione positivi sia per l’esercizio 2016 che per quello 2017, mentre gli enti in disavanzo sono stati solo 610 nel 2016 (12%) e 565 nel 2017 (11%), ma sommando i risultati positivi a quelli negativi, il risultato finale è un rosso di 1,9 miliardi per il 2016, quasi dimezzato, ma pur sempre superiore a 1 miliardo nel 2017.

Inoltre c’è da rilevare che sei Comuni da soli generano oltre la metà del disavanzo globale (3,2 miliardi su 5,4 nel 2016, 3 su 5 nel 2017), mentre fra le 10 città metropolitane la sola Milano ha chiuso il 2016 in rosso (effetto soprattutto dell’impegno straordinario per l’Expo) ma con un risultato contabile di amministrazione positivo al netto di quote vincolate e destinate agli investimenti. Nel 2017 tutte e 10 le città metropolitane hanno chiuso in pareggio o in avanzo. Dato anche questo, però, che da solo non è sintomo di ottima salute; ben diversa è infatti la situazione di Milano, che ha un alto debito sia in cifra assoluta (3,9 miliardi), che pro-capite (3.519 euro), da quella di Napoli, il cui debito è più basso in termini assoluti (1,5 miliardi) e pro capite (1.650 euro).

Il primo debito, infatti, è sostenibile, visto il bilanciamento tra entrate e uscite del Comune, il secondo molto meno, tant’è vero che Napoli da anni sta attuando un oneroso piano di riequilibrio finanziario. E qui si entra infatti nel capitolo più spinoso della relazione della Corte dei Conti, quello relativo a «Criticità finanziarie degli enti locali, deficitarietà, procedure di riequilibrio e dissesti».

Il quadro che emerge è molto più fosco. I Comuni che manifestano gravi criticità e hanno già avviato piani di riequilibrio, oppure addirittura hanno dovuto dichiarare lo stato di dissesto, sono circa 400. Nel primo gruppo, di quelli che si trovano in procedura di riequilibrio (oltre Roma che fa storia a parte), ci sono tra le altre la già citata Napoli, Foggia, Cosenza, Reggio Calabria, Messina, Savona, Rieti, Frosinone, Pescara, Sesto San Giovanni, mentre Terni e Catania, che facevano parte di questo categoria, sono scivolate nel 2018 nel girone più pericoloso delle città in dissesto conclamato, assieme ad altri Comuni come Potenza, Gioia Tauro, Milazzo e Cefalù.

Complessivamente sono 72 le città che hanno registrato una grave criticità finanziaria nel 2018, (7 al Nord, 7 al Centro e 58 al Sud e nelle Isole), di questi 42 sono in procedura di riequilibrio e 30 di dissesto, con la particolarità che 3 Comuni (Campione d’Italia, Bojano e Partinico) nello stesso 2018 hanno prima attivato la procedura di equilibrio, e pochi mesi dopo quella più onerosa di dissesto. Si tratta, in totale, di altri 1,5 milioni di cittadini che si troveranno a misurare sulla propria pelle gli effetti che derivano da questa discesa negli inferi della finanza pubblica e che si vanno ad aggiungere agli altri 662 mila cittadini dei 73 Comuni che hanno annunciato il riequilibrio o il dissesto nel 2017. E si tratta solo degli ultimi due anni di un processo che ha avuto un’impennata dopo la crisi dopo il 2011, che ha messo fine ad una lunga parabola discendente, dal picco di 133 amministrazioni in dissesto del 1989, al minimo assoluto di un solo comune in default nel 2007. Tra l’altro il dato che salta agli occhi è la distribuzione geografica della crisi, concentrata per oltre l’80% al Sud.

Percentuale pressoché costante anche nei casi di avvitamento della situazione finanziaria, nel 2013 i Comuni passati dal riequilibrio al dissesto sono stati 10, per poi salire costantemente fino al 2016 (furono 19, e quindi calare fino ai 6 del 2018. In ogni caso si è trattato quasi sempre di amministrazioni del Mezzogiorno.

La relazione della Corte dei conti, però, segnala che la distinzione tra città in riequilibrio e città in dissesto avviene in una zona grigia dove i contorni reali sono molto più sfumati. Entrambe le procedure, infatti, comportano oneri spiacevoli per amministratori e cittadini, però le penalità nei casi di dissesto sono molto più alte e quindi parecchie amministrazioni, ricorrono ad ogni meccanismo, anche quelli borderline, per evitare di finire nella categoria peggiore. In caso di dissesto, infatti, tutto il debito pregresso esce dal controllo dell’amministrazione pubblica e viene affidato a una gestione commissariale, le aliquote comunali salgono automaticamente verso il tetto massimo, i servizi non essenziali debbono essere obbligatoriamente tagliati e i dipendenti in esubero messi in mobilità. Inoltre come avviene nelle procedure fallimentari, i debiti vengono congelati, insieme ad interessi e rivalutazioni e bloccate tutte le azione esecutive di rivalsa (sequestri e altro).

Insomma il conto lo pagano i contribuenti, i dipendenti comunali, e anche i creditori, tutta gente che poi vota. Inoltre gli amministratori, se giudicati responsabili del dissesto, oltre a rischiare in solido, potrebbero incappare nella pena accessoria dell’interdizione per cinque anni dai pubblici uffici, e di conseguenza non potersi ricandidare ad alcuna carica elettiva. Insomma sono rischi che nessun amministratore vorrebbe correre.

(estratto di un articolo pubblicato sul settimanale Milano Finanza; qui la versione integrale)

Back To Top