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Sud Zes

Pnrr e Sud Italia, perché bisogna ripensare le clausole di salvaguardia

L’intervento di Alessandra Servidori, docente di politiche del lavoro, componente del Consiglio d’indirizzo per l’attività programmatica in materia di coordinamento della politica economica presso la presidenza del Consiglio.

 

Il dipartimento per le politiche di coesione ha diffuso la seconda relazione sul rispetto della quota Mezzogiorno. Cioè l’obbligo di legge che prevede di destinare a territori del sud il 40% delle risorse del piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) e del fondo complementare (Pnc).

In base ai dati aggiornati al 30 giugno, la quota risulta rispettata complessivamente (41%), ma non singolarmente da tutti gli enti titolari di misure. Sono infatti 9 su 22 le organizzazioni che non raggiungono la soglia del 40%. In particolare, i ministeri del turismo (28,6%) e dello sviluppo economico (24,5%).

Questo succede, si dice, perché ancora non sono state introdotte dal governo clausole di salvaguardia univoche e valide per tutti. Meccanismi in grado di garantire la destinazione della quota al sud, anche a fronte di ostacoli oggettivi. Succede che obiettivamente soggetti pubblici e privati del Mezzogiorno hanno difficoltà ad accedere ai bandi per mancanza di competenze, prassi farraginose o spesso pericoli di infiltrazioni  di malaffare, e comunque di soggetti in grado di formulare, e successivamente approntare con la giusta partnership, la progettualità la modulistica complicatissima.

A quel punto, spetta ai singoli enti decidere arbitrariamente come comportarsi per le misure di cui sono titolari: se adottare autonomamente delle clausole o se non farlo, rischiando che quei fondi invece di andare al sud vadano in altri territori. E però il ricorso alle clausole di salvaguardia, invece di rassicurare istituzioni europee e mercati, motivo per cui erano state introdotte (2011), ha avuto l’effetto di aumentare l’incertezza sui conti pubblici italiani. Gli obiettivi programmati finiscono, infatti, sistematicamente per non essere raggiunti a causa della sterilizzazione in larga parte a deficit delle clausole. Per questo occorre liberarsi quanto prima di quelle ancora attive (28,8 miliardi tra 2020 e 2021) in modo da restituire credibilità ai conti pubblici.

Il Governo dovrebbe proporre alla Commissione europea un piano in cui si impegna a non introdurre nuove clausole e a coprire una quota sufficientemente ampia di quelle in vigore. È giusto ricordare che quando furono introdotte rappresentavano un modo per includere da subito nei saldi di bilancio risparmi provenienti da operazioni complesse la cui attuazione puntuale non poteva essere effettuata nell’immediato e il cui impatto sui conti pubblici era incerto. Le clausole di salvaguardia introdotte per gli anni tra il 2012 e il 2021 avrebbero dovuto garantire un maggior gettito tendenziale pari a 64,8 miliardi di euro, 55,6 miliardi al 2019. Di questi, poco più della metà si è tradotto in un miglioramento del deficit tendenziale (circa 28 miliardi), per effetto dellʼattivazione delle clausole e della loro compensazione con altre maggiori entrate e minori spese. Per raggiungere la quota del 40%, per questi come per altri strumenti di sostegno, è necessario prevedere meccanismi correttivi che compensino eventuali inefficienze nelle capacità progettuali e attuative delle Amministrazione meridionali, e favoriscano la partecipazione dei soggetti economici del Sud.

È necessario predisporre modalità di salvaguardia in caso di mancato assorbimento. Il tema è quello della declinazione a livello territoriale degli interventi nazionali di incentivazione da conseguire con una pluralità di strumenti come, ad esempio, maggiori aliquote di agevolazione per il Sud o criteri privilegiati di accesso agli interventi, soprattutto per quelle attività produttive e quegli ambiti tecnologici che presentano eccellenze nelle regioni meridionali. Su tutto ciò, previsto recentemente negli ultimissimi provvedimenti del Governo Draghi sarà necessario vigilare.

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