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Recovery Fund? Sì trasferimenti, no prestiti

Recovery Fund: fini, incertezze, scenari e priorità nell'analisi degli economisti Boitani, Saraceno e Tamborini

L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO?

Il disco verde politico del Consiglio europeo del 23 aprile allo European Recovery Fund (Erf) sgombra il campo dal dibattito sul “se” e richiede di concentrarsi sul “come”. Il solo punto di accordo è che lo Erf sarà innestato sul bilancio comunitario e alimentato dalla raccolta di fondi sul mercato finanziario. Molti aspetti, demandati alla Commissione, sono ancora da definire e molti inciampi possono ancora ostacolarne il cammino. I vincoli politici nazionali di molti paesi (incluso il nostro) impediscono voli pindarici su bilanci europei e competenze condivise. Tuttavia, l’Erf potrebbe essere un primo seme, seppur piccolo, di una genuina leva fiscale europea lungamente (dis)attesa. Perché lo sia, occorre disegnarlo in maniera da poter bilanciare, non potendo ricomporle, tutte le linee di frattura tra governi contrari e governi favorevoli alla creazione di uno nuovo strumento comunitario di questo genere.

UN MECCANISMO FISCALMENTE NEUTRALE

La prima linea di frattura è che l’European Recovery Fund non deve prefigurare un trasferimento fiscale tra paesi, né avallare l’idea distorta che si tratti di un’operazione emergenziale di tipo umanitario.

Per cominciare, la capacità di raccolta di risorse sul mercato finanziario richiede la costituzione di un fondo di garanzia a fronte dei creditori, e quindi la definizione delle quote di contribuzione da parte di ciascun paese, tipicamente nella forma di un versamento annuale, che si aggiungerebbe a quanto dovuto ordinariamente all’Unione. Il fondo di garanzia, in equilibrio finanziario, è minore nel caso di un’obbligazione irredimibile (consol), che deve assicurare ai creditori solo il pagamento degli interessi sine die, mentre è più elevato per un’obbligazione che prevede anche la restituzione del capitale a scadenza. Ci sono pro e contro per entrambe le formule, ma la differenza quantitativa tende a ridursi via via che si allunga la scadenza (trent’anni o più è l’orizzonte di cui si parla).

Punto più rilevante, se si desidera una contribuzione fiscalmente neutrale, una formula adatta può essere un “contributo di cittadinanza” proporzionale al numero di cittadini adulti di ogni paese. Ciascun governo può raccogliere la somma dovuta come meglio crede. Un’alternativa altamente auspicabile, anche per il risvolto simbolico, sarebbe l’introduzione di un’imposta europea di scopo. La neutralità fiscale può essere garantita fissando il tetto di utilizzo per ciascun paese in misura simmetrica al criterio contributivo.

LE DIFFERENZE TRA TRASFERIMENTI E PRESTITI

La seconda linea di frattura, già emersa a valle del Consiglio europeo, è quella sulla distribuzione ai diversi membri delle risorse raccolte. Prestiti, con o senza condizioni, o trasferimenti (grant) con licenza di spendere. Qui occorre fugare alcuni equivoci, fonte di confusione. In primo luogo, entrambe le opzioni sono ammissibili e compatibili con il modus operandi dell’Unione Europea, basta chiarire cosa s’intende per “trasferimenti”. La modalità prestiti implica che l’ente che amministra lo Erf si comporta come una banca di credito cooperativo i cui soci (gli stati membri) hanno diritto di ricevere credito a condizioni agevolate, rispetto al mercato, e coerenti coi fini sociali (c’è già un esempio: la Banca europea degli investimenti). Con la modalità trasferimenti lo Erfacquista la natura di un ente mutualistico di erogazione di beni o servizi, che i soci, di nuovo, hanno diritto di ricevere, non per beneficenza, ma in quanto, e nella misura in cui, hanno versato la quota associativa (come per i Fondi strutturali europei).

In secondo luogo, le due modalità sono diverse dal punto di vista del rapporto che s’instaura tra governo ed Erf: nel caso dei prestiti, il ricorso al Recovery Fund si traduce in indebitamento pubblico (non direttamente col mercato, però), in quello dei trasferimenti no. Inoltre, coi prestiti l’accento negoziale cade sulle condizionalità a garanzia del rimborso, mentre coi trasferimenti cade sulla responsabilità congiunta dei piani stessi (come coi partnership agreements dei Fondi strutturali). A nostro avviso, la seconda modalità è preferibile per due ragioni. La prima è di essere coerente con l’obiettivo di non creare ulteriori debiti nazionali. La seconda è che la responsabilità congiunta sulle spese dissipa i dubbi delle formiche del Nord sulle spese pazze delle cicale del Sud, e al contempo evita la materia politicamente tossica delle condizionalità per il rimborso del prestito.

RIDUZIONE DEL RISCHIO

La terza linea di frattura è quella della responsabilità comune di fronte ai creditori. Anche qui, sgombriamo il campo da equivoci. Lo Erf così disegnato non comporta alcuna esposizione né responsabilità diretta dei singoli stati verso i creditori, ovvero non comporta un rischio-paese specifico né un qualche tipo di media dei vari paesi. La sua solvibilità dipende dal suo fondo di garanzia. Quindi la condivisione di rischio a carico degli stati membri sarebbe la probabilità di exit di ciascuno degli altri, e la conseguente ricopertura della quota mancante, mentre il rischio dei creditori risiederebbe solo nella probabilità di exit di un numero tale di paesi da rendere impossibile la ricopertura. L’entità modesta della quota contributiva, indipendente dall’andamento dell’economia, il vantaggio cospicuo della leva finanziaria, e magari una congrua penalità di uscita, rendono queste eventualità assai remote. La riduzione del rischio sarebbe ulteriormente rafforzata dall’emissione di obbligazioni irredimibili, come proposto da molti economisti di orientamenti diversi, così che la responsabilità congiunta sia solo riguardo al costo del debito e non dello stock. Contrariamente a quanto si legge, tali titoli non avrebbero difficoltà a essere collocati, magari con un piccolo premio per la durata, perché costituirebbero un attivo sicuro, un safe asset. L’appetito dei risparmiatori per attivi sicuri oggi è tale da consentire allo stato tedesco d’imporre un signoraggio (una tassa pari al rendimento negativo dei bund) ai propri finanziatori (tra cui gli stessi tedeschi, i quali non sembrano affatto apprezzare, a giudicare dalle lamentele, seppur rivolte, chissà perché, contro la Banca centrale europea), i quali presumibilmente sarebbero lieti di avere un’alternativa.

(Articolo pubblicato su LaVoce.info, qui la versione integrale)

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