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Recovery Fund, ecco quanti soldi avrà davvero l’Italia

Che cosa hanno scritto gli economisti Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo sul Financial Times a proposito di Recovery Fund. L'articolo di Tino Oldani

 

I tanto decantati 209 miliardi del Recovery Fund per l’Italia, a conti fatti, si ridurranno a meno di 10 miliardi l’anno per sei anni. Mario Draghi lo sa bene. Per questo, si illude chi si aspetta da lui un’azione di governo di stampo keynesiano, con ampio ricorso alla spesa pubblica per fare fronte alla crisi da pandemia. Più che a Keynes, è probabile che il nuovo premier si ispirerà alla «distruzione creatrice» del libero mercato di Schumpeter, una versione attuale del laissez faire, come lui stesso ha esortato a fare nel recente rapporto per il G30.

In sintesi, è questo il contenuto di un articolo pubblicato venerdì 12 febbraio dal Financial Times, firmato da due economisti italiani, Emiliano Brancaccio e Riccardo Realfonzo, docenti all’Università del Sannio. Brancaccio e Realfonzo sono intellettuali di sinistra, estranei alle cordate di partito, etichettati spesso come marxisti dai media mainstream. A Brancaccio, viene riconosciuta, tuttavia, «un’apertura ispirata dalle teorie di Keynes e Sraffa»: una voce fuori dal coro, a cui il Financial Times, che non è un foglio marxista, ha offerto di spiegare che cosa si attende dal governo Draghi. Per tutta risposta, Brancaccio e Realfonzo fanno parlare le cifre del Recovery Fund, per la cui gestione è stato bocciato il governo Conte-Gualtieri e lo si è sostituito con quello Draghi-Franco.

Testuale: «Se esaminiamo i 209 miliardi che il Recovery Plan stanzierà per l’Italia per i prossimi sei anni, 127 sono prestiti che prevedono solo un risparmio sullo spread tra tassi di interesse nazionali ed europei: anche con previsioni pessimistiche sui tassi italiani, non più di 4 miliardi all’anno. Per quanto riguarda i restanti 82 miliardi di risorse a fondo perduto, l’importo netto dipenderà dal contributo dell’Italia al bilancio europeo.

Considerato che un accordo su rilevanti imposte pan-europee appare improbabile, i paesi membri dovranno contribuire come di consueto in relazione al pil annuale. Il che implica che l’Italia dovrebbe pagare non meno di 40 miliardi. La sovvenzione netta europea è quindi di soli 42 miliardi, ovvero 7 miliardi l’anno. Infine, se si considera che nella prossima sessione l’Italia contribuirà alla parte restante del bilancio Ue per circa 20 miliardi, il trasferimento netto totale scende a meno di 4 miliardi l’anno».

Sommando questi 4 miliardi ai 4 miliardi di risparmio sugli interessi, «l’Italia riceverà molto meno di 10 miliardi all’anno dall’Europa per i prossimi sei anni: una somma molto modesta, se paragonata a una crisi che ha distrutto oltre 160 miliardi di pil solo l’anno scorso, molto più delle passate recessioni». Un beneficio, quello indicato dai due economisti di sinistra, più generoso di quello calcolato mesi fa dal bocconiano Roberto Perotti, che non andava oltre i 20 miliardi in totale. Sempre pochi. Che ne farà Draghi?

Scrivono Brancaccio e Realfonzo: «Nella storia recente d’Italia, l’avvento dei tecnocrati al governo ha sempre coinciso con l’esigenza di indebolire le forze parlamentari per aumentare l’autonomia del governo nella gestione delle poche risorse disponibili, nel mezzo di gravi crisi economiche.

Fu così durante la crisi valutaria del 1992 con i governi Amato-Ciampi, e anche con la crisi dell’eurozona del 2011 con la premiership di Mario Monti. Sarà diverso il caso Draghi? Abbiamo dei dubbi». Il motivo? «Non è un caso che nel suo recente rapporto per il G30, Draghi abbia esortato i governi a sostenere la ‘distruzione creatrice’ del libero mercato: non certo Keynes, ma una versione del laissez faire di Schumpeter. Se lo sforzo di ripresa dell’Ue non aumenterà, la politica di Draghi potrebbe rivelarsi non troppo diversa dall’austerità dei tecnocrati che lo hanno preceduto».

Draghi, presentando l’ultimo rapporto del G30, un think-tank mondiale, ha annunciato: “Stiamo entrando in una nuova era, nella quale saranno necessarie scelte che potrebbero cambiare profondamente le economie. Quanto fatto finora sotto la spinta dell’emergenza pandemica è stato ben fatto, ma ora occorre passare a una fase molto più delicata, perché selettiva, in cui si dovrà decidere quali imprese dovranno essere aiutate». Più avanti: «La scarsità delle risorse disponibili, anche a causa delle tensioni sui conti pubblici, richiede un approccio strategico. Non tutte le aziende vanno sostenute, ma occorre scegliere quelle che possono essere redditizie dopo l’epidemia, dando particolare attenzione alle piccole e medie imprese, preziose sul piano occupazionale e produttivo, anche se con minore potere contrattuale verso i governi».

Il che, sostiene il rapporto, richiederà una forte collaborazione tra pubblico e privato, tra banche e investitori, con interventi che puntino sul capitale finanziario delle imprese più che sui prestiti, come fatto finora, senza escludere la nazionalizzazione di alcuni settori. Un piano che comporterà probabilmente più sacrifici, tra imprese chiuse, botteghe cancellate e disoccupati, rispetto alle politiche di austerità del passato. Fine delle illusioni.

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