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Non sopravvalutate gli economisti! La lezione di Keynes

Prospettive economiche per i nostri nipoti e non solo. Estratti dalla Conferenza tenuta da John Maynard Keynes a Madrid nel giugno del 1930 a cura di Alessandro Albanese Ginammi, Istituto per la Cultura dell’Innovazione

Come iniziano le recessioni? Se lo chiede l’Economist in un articolo del 22 agosto scorso. E risponde: «L’inizio di una recessione è una questione sia di umore che di denaro. Le recessioni non sono solo le conseguenze degli shock economici. Anche la psicologia di massa è importante e il pessimismo può essere contagioso».

L’Economist prosegue con la sua analisi sulla più stretta attualità. Qui riproponiamo invece una lettura che potrebbe essere ugualmente interessante per riflettere in prospettiva storica sulla recessione e sul pessimismo di oggi.

Estratti dalla Conferenza tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930. Ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion, tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991).

IL PESSIMISMO ECONOMICO

In questo momento siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. È cosa comune sentir dire dalla gente che è ormai conclusa l’epoca dell’enorme progresso economico che ha caratterizzato il secolo XIX; che adesso il rapido miglioramento del tenore di vita dovrà rallentare, per lo meno in Gran Bretagna; che nel prossimo decennio è più probabile un declino anziché un fiorire della prosperità.

La depressione che domina nel mondo, l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, cioè di fronte al significato delle tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.

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QUALI SONO LE PROSPETTIVE ECONOMICHE PER I NOSTRI NIPOTI?

Dai tempi più remoti di cui abbiamo conoscenza (diciamo duemila anni prima di Cristo) fino all’inizio del secolo XVIII, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento violento. Nei quattromila anni, conclusisi all’incirca nell’anno di grazia 1700, alcuni periodi hanno fatto registrare un miglioramento del 50 per cento (nel migliore del casi del 100 per cento) rispetto ad altri. Questo lento tasso di progresso, ovvero questa mancanza di progresso, era dovuto a due motivi: l’assenza vistosa di miglioramenti tecnici di rilievo e la mancata accumulazione di capitale.

L’assenza di grandi invenzioni tecniche fra l’era preistorica e i tempi relativamente moderni è davvero degna di nota. Quasi tutto ciò che, di sostanziale importanza, il mondo possedeva all’inizio dell’età moderna, era già noto all’uomo agli albori della storia. Il linguaggio, il fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi, il grano, l’orzo, la vite e l’olivo, l’aratro, la ruota, il remo, la vela, le pelli, la tela e il panno, i mattoni e le terrecotte, l’oro e l’argento, il rame, lo stagno e il piombo (e il ferro vi si aggiunse prima del 1000 a C.), il sistema bancario, l’arte del governo, la matematica, l’astronomia e la religione: non sappiamo quando l’uomo abbia avuto per la prima volta in mano queste cose. In una certa epoca, anteriore all’inizio della storia, forse durante uno di quei favorevoli intervalli che hanno preceduto l’ultima epoca glaciale, deve essere esistita un’era di progresso e di invenzioni paragonabile a quella in cui viviamo oggi. Ma per la maggior parte della storia vera e propria non si è avuto nulla del genere.

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BISOGNI ASSOLUTI E BISOGNI RELATIVI

Ammettiamo, a titolo di ipotesi, che di qui a cent’anni la situazione economica di tutti noi sia in media di otto volte superiore a quella odierna. Cosa di cui, in verità, non dovremmo affatto stupirci.

È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili. I bisogni della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere inesauribili poiché quanto più alto è il livello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici. Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci ripenserete, tanto più la troverete sconcertante.

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UN COLLASSO NERVOSO GENERALE

Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è, se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.

Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? È sconcertante perché, se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive. Pertanto la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale.

Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell’uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni. Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un “collasso nervoso” generale? Abbiamo già avuto una piccola esperienza di quello che intendo, cioè un collasso nervoso simile al fenomeno già piuttosto comune in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra le donne sposate delle classi agiate, sventurate donne in gran parte, che la ricchezza ha privato dei compiti e delle occupazioni tradizionali: donne che non riescono a trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta della necessità economica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche cosa di più divertente.

Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino momento in cui l’ottiene. Ricordiamo l’epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio:
Non portate il lutto, amici, non piangere per me che farò finalmente niente, niente per l’eternità.
Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a far da spettatore.
C’erano, infatti, altri due versi nell’epitaffio:
Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare.
Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di noi sanno cantare!

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COME IMPIEGARE IL TEMPO LIBERO?

Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti, come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.

Gli indefessi, decisi creatori di ricchezza potranno portarvi tutti, al loro seguito, in seno all’abbondanza economica. Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza, quando verrà.

Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale.

A giudicare dalla condotta e dal risultati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun obbligo o legame o associazione, hanno subito una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel tentativo di risolvere il problema che era in gioco.

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L’ISTINTO DI ADAMO

Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro. Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile.

Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.

Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita, sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.

Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del capitale. Naturalmente continueranno ad esistere molte persone dotate di attivismo e di senso dell’impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all’obbligo di lodarle e di incoraggiarle perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi, il significato vero di questo “impegno” di cui la natura ha dotato in varia misura quasi tutti noi. “Impegno” infatti, significa preoccuparsi dei risultati futuri delle proprie azioni più che della loro qualità o del loro effetto immediato nel nostro ambiente. L’uomo “impegnato” tenta sempre di assicurare alle sue azioni un’immortalità spuria e illusoria, proiettando nel futuro l’interesse che vi ripone.

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LA BEATITUDINE ECONOMICA

Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano.

Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.

Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che mai sì sia verificata nell’ambiente fisico in cui si muove la vita degli esseri umani come aggregato. Ma, naturalmente, tutto avverrà per gradi, non come una catastrofe. Tutto, anzi, è già incominciato. Le cose andranno semplicemente così: sempre più vaste diventeranno le categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità economica. Ci si renderà conto della differenza critica quando questa condizione si sarà a tal punto generalizzata da mutare la natura del dovere dell’uomo verso il suo simile: infatti l’impegno del fare verso gli altri continuerà ad avere una ragione anche quando avrà cessato di averla il fare a nostro vantaggio.

Il ritmo con cui possiamo raggiungere la nostra destinazione di beatitudine economica, dipenderà da quattro fattori: la nostra capacità di controllo demografico, la nostra determinazione nell’evitare guerre e conflitti civili, la nostra volontà di affidare alla scienza la direzione delle questioni che sono di sua stretta pertinenza, e il tasso di accumulazione in quanto determinato dal margine fra produzione e consumo. Una volta conseguiti i primi tre punti il quarto verrà da sé.

In questo frattempo non sarà male por mano a qualche modesto preparativo per quello che è il nostro destino, incoraggiando e sperimentando le arti della vita non meno delle attività che definiamo oggi “impegnate”.

Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sul piano dei dentisti, sarebbe meraviglioso.

Il testo completo si può consultare liberamente online qui 

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