Il primo maggio 2024 si caratterizza, in Italia più che altrove, per una grande contraddizione. Le imprese tutte, grandi e piccole, realizzano con crescente fatica il reclutamento delle professionalità necessarie ai loro progetti di crescita. Tanto per i lavori hi-tech quanto per quelli servili. La crisi dell’offerta deriva dal declino demografico, dalle criticità del sistema educativo, dalla diffusa perdita del senso del lavoro. Eppure, nonostante l’incremento degli occupati, continuiamo ad essere il fanalino di coda dei tassi di occupazione nei Paesi membri dell’Unione, mentre rimane elevato il numero degli inattivi. Certo, si tratta di valori medi in una dimensione nazionale segnata da grandi divari territoriali, ma non per questo l’allarme per il sottoimpiego della nostra ricchezza umana è meno preoccupante. Il problema si concentra nei giovani, nelle donne, nel Mezzogiorno.
Sono carenti, in particolare, tre politiche per le quali serve il coraggio della discontinuità.
La prima consiste nella mobilitazione di una molteplicità di intermediari capaci di mirare il collocamento e la riqualificazione di ciascuna persona nell’impresa più idonea tra quelle che domandano lavoratori. Occorre dire basta all’illusione dell’incontro meccanico tra domanda e offerta perché né l’una né l’altra si riconducono a figure standard. Quindi niente formazione a catalogo e gli stessi centri per l’impiego pubblici sono chiamati a competere allo stesso modo con una pluralità di operatori privati e privato sociali. Il fallimento dell’impiego dei fondi europei suggerisce di usarli per premiare gli intermediari in base ai risultati di impieghi duraturi. Cosa difficile per Regioni che preferiscono alimentare i centri per l’impiego e soddisfare i centri di formazione. A prescindere.
La seconda decisione deve riguardare i contratti di lavoro. In ciascuna azienda, lungi dal praticare soluzioni omologhe, le parti si devono adattare reciprocamente flessibilizzando gli orari e misurando le prestazioni per obiettivi e risultati. Il che significa superare le vecchie classificazioni statiche e premiare periodicamente gli incrementi delle competenze, oltre alla produttività. In questo modo il lavoro è chiamato a dominare l’evoluzione tecnologica che ne aumenta (ma non sostituisce) la capacità. Cosa difficile per organizzazioni che preferiscono i contratti centralizzati.
La terza politica riguarda il sistema di istruzione, la necessità di attività di orientamento precoci e di percorsi educativi che incrociano apprendimento teorico e pratico dialogando con il sistema delle imprese. Cosa difficile per sindacati della scuola e per corporazioni accademiche troppo autoreferenziali.
Si tratta di mettere al centro delle politiche pubbliche le persone. Anche a prezzo di conflitti utili, visto che ce ne sono già molti inutili.
Maurizio Sacconi