Il Regolamento 241/2021 che istituisce “il dispositivo per la ripresa e la resilienza” è stato approvato dal Parlamento europeo il 12 febbraio 2021.
IL QUADRO GENERALE
Seguendo il Regolamento gli Stati membri hanno presentato “non tassativamente” il proprio Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) alla Commissione europea entro il 30 aprile 2021. La Commissione Ue ha avuto due mesi di tempo per approvarlo e presentarlo al Consiglio Ecofin che il 13 luglio 2021 ha dato la sua approvazione ai primi 12 Piani tra cui quello italiano. Dopo questa procedura l’Italia, come gli altri Stati, potrà ricevere il 13% dei fondi (circa 25 miliardi di euro per l’Italia) sotto forma di anticipazione ricordando che le erogazioni successive avranno cadenza semestrale sotto forma di SAL. Tutti fondi assegnati (191,5 miliardi di euro per l’Italia) dovranno essere impegnati entro il 2023 e spesi entro il 2026. Questo è il quadro generale.
A COSA PUNTA IL PNRR ITALIANO
Entrando maggiormente nel merito del PNRR italiano, è possibile affermare che esso è principalmente un piano di riforma, in quanto le linee di investimento dovranno essere accompagnate da una strategia di riforme orientata a migliorare le condizioni regolatorie e ordinamentali di contesto e a incrementare stabilmente l’equità, l’efficienza e la competitività del Paese. In questo senso le riforme devono considerarsi, allo stesso tempo, parte integrante dei piani nazionali e catalizzatori della loro attuazione.
In linea con le Raccomandazioni della Commissione, le riforme previste dal Piano italiano affrontano le debolezze del Paese sia in ottica strutturale secondo il Country Specific Recommendations del 2019 (CSR 2019), sia ai fini della ripresa e resilienza del sistema economico e sociale a fronte delle trasformazioni provocate dalla crisi pandemica (CSR 2020). Le azioni messe in campo mirano non solo ad accrescere il potenziale di crescita, ma anche a ridurre le perduranti disparità regionali, intergenerazionali e di genere che frenano lo sviluppo dell’economia.
Notoriamente la bassa produttività del settore pubblico italiano ha rappresentato spesso un ostacolo al miglioramento dei servizi offerti e agli investimenti pubblici. Il PNRR affronta questa rigidità e promuove un’ambiziosa agenda di riforme per la Pubblica Amministrazione. Questa è a sua volta rafforzata dalla digitalizzazione dei processi e dei servizi, dal rafforzamento della capacità gestionale e dalla fornitura dell’assistenza tecnica necessaria alle amministrazioni centrali e locali, che sono fondamentali per promuovere un utilizzo rapido ed efficiente delle risorse pubbliche. Come si evince da testo del Piano, “uno dei lasciti più preziosi del PNRR deve essere l’aumento permanente dell’efficienza della Pubblica Amministrazione e della sua capacità di decidere e mettere a punto progetti innovativi, per accompagnarli dalla selezione e progettazione fino alla realizzazione finale”.
LA TRASFORMAZIONE DELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
Quindi, la capacità di trasformare “in corso d’opera” la P.A. è un presupposto strategico per lo stesso successo del PNRR e il rilancio del Paese. Il Piano richiede una P.A. (centrale e periferica) che, grazie anche alle capacità e competenze dei suoi manager, riesca a rendere i processi di gestione e utilizzo delle risorse veloci, efficaci ed efficienti. Una grande responsabilità che ricadrà nei prossimi anni soprattutto sulla P.A. sui suoi dipendenti e sulla sua classe dirigente.
In particolare, la Missione 1 (le Missioni del PNRR sono 6) – Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e cultura – Componente 1 (le Componenti del PNRR sono 16) – Digitalizzazione, Innovazione e Sicurezza nella P.A. perseguirà specificamente questi obiettivi unitamente ad altri interventi dedicati al settore.
La Componente è stata dotata dal Piano di ben 9,75 miliardi di euro su di un totale pari a 191,5 miliardi di euro più 1,2 miliardi di euro provenienti dal Fondo complementare su di un totale di 30,64 miliardi di euro. Un intervento, quindi, dotato di ben 10,95 miliardi di euro finalizzato alla trasformazione digitale della P.A. per adattarla al nuovo paradigma digitale, offrendo servizi a cittadini e imprese in modo semplice e diretto. L’equazione quanto semplice ma fondamentale è che “più digitale uguale più produttività” cioè fare di più con meno. E’ una idea semplice ma che è alla base di una P.A. efficiente in un Paese moderno. In sintesi, occorre portare tutti coloro che operano nella P.A. oltre l’analogico.
Ciò significa che non c’è bisogno solo di un semplice ricambio generazionale one-to-one a parità di assetti organizzativi e modelli gestionali. Occorre, quindi, un salto di qualità in cui persone, organizzazione, operatività della P.A. nel suo insieme siano ripensati dentro le logiche del digitale. Questa la sfida, che per essere vinta dovrà affrontare e superare problemi e carenze strutturali a cominciare dalle caratteristiche della dotazione del personale della P.A.
I PROBLEMI DEL SETTORE PUBBLICO
In Italia, purtroppo, la debole capacità amministrativa del settore pubblico negli ultimi anni ha rappresentato un ostacolo al miglioramento dei servizi offerti e agli investimenti pubblici nonostante che dal 1993 (riforma
Cassese) ad oggi ci siano state ben 5 riforme strutturali (l’ultima, nel 2017, la riforma Madia). Riforme risultate inefficaci, forse proprio perché alla fine non sono state perseguite completamente, se si considera che la P.A. italiana sconta ad oggi un gap in termini di efficienza rispetto a quella di molti Paesi europei. Tra le diverse misure del grado di efficienza della P.A., il Quality of Gouvernament Index, elaborato dalla Commissione Ue, posiziona l’Italia alla 23a posizione su 28 Paesi dell’Ue (dato pre-Brexit). Un posizionamento che evidenzia un grave problema per il nostro Paese se si considera che la P.A. italiana rappresenta più del 16% del Pil pari a circa 253 miliardi di euro, con punte tra il 25 al 30% del Pil nelle regioni del Mezzogiorno. Un peso importante se si considera che il comparto del Turismo rappresenta “solo” il 12% del Pil e il Manifatturiero circa il 20% del Pil. Inoltre, la P.A. è il “primo datore di lavoro” italiano con circa 3,12 milioni di addetti (Fonte: ARAN, 2021) e i dipendenti pubblici rappresentano il 5,3% della popolazione e il 13,6% degli occupati totali (nel 2008 erano il 14,4%).
Nonostante l’importanza dei valori assoluti, i dipendenti pubblici negli ultimi 10 anni sono diminuiti del 3,9% (circa -132mila unità) a causa del blocco delle assunzioni. In questo contesto i dirigenti sono passati dalle circa 71mila unità del 2009 ai circa 62mila del 2019 con una riduzione di quasi 10mila unità pari al – 13%. La principale conseguenza di questo processo è che la P.A. è anziana e pensionabile: l’età media è 50,6 anni. In particolare il 55% dei dipendenti pubblici ha più di 55 anni (il 16,3% ha più di 60 anni) contro il 37,3% del totale occupati (pubblici e privati) e che solo il 4,2% di essi ha meno di 30 anni.
Inoltre, dal confronto con Francia, Germania, Spagna e Regno Unito si evidenzia come la nostra P.A. in termini di addetti e spesa pubblica è sottodimensionata rispetto ai fabbisogni effettivi e i nostri dipendenti pubblici, in particolare i dirigenti, hanno stipendi inferiori a questi Paesi. I dati sull’occupazione pubblica, quindi, sfatano il mito di un P.A. italiana ridondante in termini di popolazione e occupati, in quanto, dal confronto con i principali Paesi Ue (Francia, Germania e Spagna) e Regno Unito (Fonte: OCSE, 2019), la nostra P.A. registra un evidente sottodimensionamento rispetto al ruolo strategico che essa dovrebbe rivestire in un paese moderno e rispetto ai nuovi servizi che potremmo definire “4.0”.
Entrando nel merito, rispetto all’Italia, la Francia ha un peso quasi doppio rispetto alla sua popolazione e agli addetti totali (rispettivamente 9,3% e 21,4%), con il Regno Unito che presenta l’8,1% del peso dei dipendenti pubblici sulla popolazione e il 16,4% sugli occupati totali. Il nostro Paese è in linea con la Germania (rispettivamente 5,3% e 10,6%) e la Spagna (5,3% e 15,7%). Le peculiarità della struttura occupazionale pubblica hanno un serio impatto sull’aumento della produttività e sulla crescita del Pil. Infatti, alcuni studi (tra i quali quelli dell’OCSE) dimostrano l’esistenza di una elevata correlazione tra efficienza della P.A. e crescita della produttività e del Pil. Da alcune simulazioni effettuate, risulta che se si allineasse il grado di efficienza della P.A. italiana con quella media di Francia, Spagna, Germania e Regno Unito si genererebbe un Pil aggiuntivo pari a 146 miliardi di euro pari alla metà di tutti gli investimenti pubblici italiani del 2018, ossia il 9,1% del Pil italiano (Fonte: OCSE). Inoltre, una inefficiente azione della P.A. non solo ha un impatto negativo sul nostro Pil ma anche sulle MicroPMI. Ogni anno, queste ultime, sostengono un costo diretto per la gestione dei rapporti con la P.A. pari a 32,6 miliardi di euro che se aggiunti ai 24,5 miliardi di euro sostenuti dalle grandi imprese rappresentano un totale di 57,2 miliardi di euro di costi diretti, pari al 3,3% del Pil, che colpiscono la competitività delle nostre imprese.
I COSTI INDIRETTI PER IL PAESE E LA PRODUTTIVITÀ
In aggiunta ai costi diretti per le imprese, l’inefficienza della macchina dello Stato genera dei costi indiretti per l’intero Sistema Paese in termini di potenziale crescita, in particolare della produttività, specialmente sulla componente rappresentata dalla Produttività Totale di Fattori, che è particolarmente stagnante per il nostro Paese, a cui la P.A. fornisce il suo contributo negativo: fatta 100 la produttività multifattoriale nel 2000, in Italia, nel 2017, era pari a 94,3, ossia diminuita di ben 5,7 punti percentuali, mentre la produttività del lavoro e quella del capitale sono cresciute praticamente a ritmi europei.
L’analisi comparata fatta in precedenza mette in evidenza un ulteriore elemento significativo di tipo macroeconomico che potrebbe essere utile al fine di cambiare strategia nei confronti della nostra Pubblica Amministrazione e di meglio indirizzare le risorse messe a disposizione nel PNRR. Negli ultimi anni, infatti, le riforme della P.A. e più in generale gli interventi di politica economica, si sono concentrati eccessivamente sulla riduzione dei costi dei fattori di produzione, in particolare del costo del lavoro e quindi del personale pubblico per evitare eccessivi deficit del bilancio pubblico secondo il dettato della “austerità espansiva”, teoria dimostratasi palesemente errata e sconfessata negli anni anche da FMI e Banca Mondiale oltre che recentemente dalla Commissione Ue.
L’obiettivo macroeconomico, in assenza della possibilità di svalutare la moneta con l’avvento dell’Euro, è stato quello di tenere la competizione internazionale attraverso una generalizzata riduzione dei costi di produzione del Sistema Paese. A ciò si è aggiunta una impostazione diffusa in molte economie avanzate, che vedeva criticamente il ruolo del pubblico nell’economia e apprezzava invece la riduzione della sua sfera d’azione e, insieme, della sua dimensione organizzativa.
Queste politiche hanno avuto ricadute negative in particolare sulla qualità della P.A. già fortemente penalizzata dall’adozione di pratiche e processi inefficienti, determinando in questo modo un vero e proprio deficit di offerta di servizi pubblici. Un deficit che vede una sua “centralità” nelle scelte adottate negli ultimi anni rispetto al personale occupato nella P.A. Un inversione di tendenza alla quale il PNRR potrà dare una svolta sostanziale. Questa la sfida che occorrerà vincere nei prossimi anni anche grazie alle risorse rese disponibili dal PNRR e conseguire l’obiettivo di trasformare la Pubblica Amministrazione da “peso aggiunto” a “fattore di sviluppo” per le imprese e l’economia italiana.