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Salario Minimo

Perché si borbotta contro il salario minimo

L'analisi dell'editorialista Giuliano Cazzola

“Il salario minimo legale non è la strada giusta per aumentare le retribuzioni dei lavoratori, così come non lo è quella della Flat Tax: sarebbe molto meglio che, in un disegno organico di riforma tributaria, il Governo imboccasse la strada, suggerita dalla Confindustria, di un robusto taglio del cuneo fiscale destinando il 100% delle risorse liberate ai lavoratori”.

Chi parla così, in una recente intervista, è Maurizio Stirpe, vicepresidente della Confindustria per i rapporti sindacali, il quale boccia le due principali iniziative che, in competizioni tra loro, portano avanti le due compagini della maggioranza di governo: i ‘’verdi’’ sbavano per la flat tax; i ‘’gialli’’ per il salario minimo legale. La proposta di Stirpe è corretta e condivisibile, ma anche in questo caso ‘’virtuoso’’ si dovrebbe, per chiarezza e trasparenza, scendere un pò sul piano delle soluzioni tecniche ed operative. Ciò perché, il ‘’cuneo fiscale e contributivo’’ non è una sorta di nodo gordiano da recidere con un colpo di spada e non costituisce neppure un tesoretto abusivo ‘’messo lì nella vigna a far da palo’’. Non siamo cioè in presenza di risorse di cui non si conoscono la natura e la destinazione, ma del pacchetto di aliquote attraverso le quali i datori e i lavoratori finanziano la maggior parte delle prestazioni sociali.

Ormai sul versante della fiscalizzazione dei c.d. oneri impropri si è già raschiato – più volte – il fondo del barile. Certo, l’uso della leva fiscale può concorrere alla riduzione del differenziate tra retribuzione lorda e netta, ma non a ridurre il costo del lavoro. Ed è assai problematico ridurre la parte contributiva del cuneo, già ora in molti casi insufficiente a finanziare le relative prestazioni. In sostanza, come già avviene – da tempo e per diverse politiche sociali (si pensi all’assegno per il nucleo famigliare – Anf – dove intervengono i trasferimenti nonostante l’attivo assicurato dal prelievo contributivo), è lo Stato, ovvero la fiscalità generale a coprire lo squilibrio tra entrate ed uscite.

Ma ha un senso tutto ciò, quando il calcolo contributivo viene santificato come lo strenuo difensore di una corrispettività tra contribuzione versata (a questo punto surrogata da supporti di finanza pubblica) ed importo della pensione? Dove andrebbe a finire la purezza della linea cara al nuovo corso? Il costo del lavoro in senso ampio comprende la remunerazione del lavoro dipendente (retribuzioni, compensi in denaro e in natura, contributi sociali a carico del datore di lavoro), i costi della formazione professionale e altre spese (quali spese di assunzione, spese per indumenti da lavoro e imposte inerenti all’occupazione e considerate come costo del lavoro meno i contributi percepiti).

Secondo le rilevazioni dell’Istat – la pubblicazione è del gennaio di quest’anno – riguardante le retribuzioni e il costo del lavoro, nel 2016 nelle unità economiche, con 10 dipendenti e oltre, il costo del lavoro in senso ampio, ossia il complesso delle spese sostenute dai datori di lavoro per impiegare lavoratori, è stato pari a 41.785 euro per dipendente: il cui 72,4% è costituito dalle retribuzioni lorde e il 27,3% dai contributi sociali. La restante parte è composta dai costi intermedi connessi al lavoro, tra cui le spese di formazione professionale che contano per lo 0,2%. All’interno delle retribuzioni lorde, quelle in denaro rappresentano il 71,6% del costo del lavoro in senso ampio e sono costituite da importi erogabili in ogni periodo di paga (56%), importi non erogabili in ogni periodo di paga, ovvero quelli relativi a tredicesima e altre mensilità aggiuntive, premi annuali, ecc. (9,2%) e remunerazioni per giorni non lavorati per ferie, festività, permessi (6,3%).

Le retribuzioni in natura ammontano allo 0,7% del costo del lavoro in senso ampio. Completano il quadro, secondo l’Istat, le diverse componenti dei contributi sociali. Il 27,3% complessivo è costituito principalmente da contributi obbligatori per legge (20,9%). La parte di contributi volontari e contrattuali incide per lo 0,4% mentre TFR e contributi sociali figurativi hanno un peso rispettivamente del 3,6% e del 2,4%. Bastano questi dati a far comprendere che le riduzioni del costo del lavoro possono verificarsi soltanto sul versante di quella contribuzione sociale che finanzia – con un apporto decrescente – le prestazioni del welfare (si ricorda che l’aliquota pensionistica è pari al 33% grosso modo suddivisa nel 24% a carico del datore e del 9% del lavoratore dipendente).

Del resto, tutti gli aggravi caricati sul sistema pensionistico in tempi sia antichi che recenti (compresa quota 100 e le altre misure) sono stati finanziati dalla fiscalità generale. È sempre più evidente, allora, che la tanto decantata corrispettività – alla base del principio assicurativo – tra contributi versati e pensione è soltanto un’illusione ottica. Se si volesse davvero riordinare il sistema, tanto varrebbe allocare i trasferimenti dal bilancio dello Stato in un trattamento di base di carattere universale, sul quale potrebbe innestarsi un secondo pilastro obbligatorio, a questo punto finanziato con un’aliquota più bassa dell’attuale anche di 8 o 9 punti (e con conseguente riduzione del costo del lavoro). Ovviamente occorrerebbe un periodo di transizione fondato su una ristrutturazione delle risorse oggi destinate al sostegno dell’assistenza.

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