Non è un caso che l’eccezionalità degli Stati Uniti abbia coinciso con la politica fiscale più espansiva della storia moderna. Gli ingenti disavanzi primari finanziati dall’accumulo di debito hanno consentito al governo di immettere nuova domanda nell’economia a costi contenuti. I rendimenti bassi hanno tenuto sotto controllo l’onere degli interessi, contribuendo a mascherare la portata dell’espansione fiscale.
Dal 2010, gli Stati Uniti hanno registrato un disavanzo primario medio pari a circa il -4,5% del Pil e accumulato debito per oltre il 30% del Pil. Si tratta di un solido contributo alla crescita, in primo luogo, oltre a eventuali effetti aggiuntivi derivanti dai moltiplicatori fiscali a seconda della produttività della spesa. Maggiore è la spinta alla crescita, maggiore è la capacità di spesa e più favorevole è la dinamica del debito.
Tuttavia, l’era dell’accumulo di debito a basso costo è giunta al termine. Il debito a basso costo sta diventando costoso, poiché il debito a basso rendimento dell’era Covid viene convertito in tassi molto più elevati. Nel corso dei prossimi quattro anni di mandato di Trump, i Treasury inizialmente emessi con rendimenti medi dell’1,6% circa dovranno essere rinnovati a livelli più vicini al 4%. Ciò implica che anche solo per mantenere il deficit fiscale intorno agli attuali livelli compresi tra -5% e -6% del Pil e, quindi, mantenere l’offerta di obbligazioni invariata ai massimi storici, è necessario un consolidamento di almeno 1 punto percentuale del deficit primario. E anche in questo caso, lo stock di debito continua ad accumularsi.
Ciò pone il bilancio statunitense in una posizione molto precaria. La spesa per interessi assorbirà oltre il 20% del gettito fiscale, con un aumento considerevole rispetto al 10% circa dell’ultimo decennio. È una spesa improduttiva e quindi più si spende per gli interessi, meno risorse vengono destinate alla crescita del Pil.
Allo stesso tempo, dal punto di vista strutturale, nei prossimi dieci anni assisteremo a una riduzione del contributo del governo alla crescita reale del Pil, con una quota crescente del bilancio destinata alla spesa obbligatoria per programmi di assistenza sociale (come la previdenza sociale e l’assistenza sanitaria), a causa dell’aumento del numero di baby boomer che raggiungono l’età pensionabile.
Vale la pena sottolineare che la maggior parte della spesa federale non contribuisce effettivamente alla crescita del Pil. Solo la spesa per servizi resi o beni acquistati viene conteggiata. I trasferimenti – agli Stati o ai singoli individui, come la previdenza sociale, i sussidi di disoccupazione e l’assistenza sanitaria – non contribuiscono alla crescita, ma ridistribuiscono la ricchezza all’interno dell’economia. Il punto è che la politica fiscale è sotto pressione su due fronti e quindi, anche se a prima vista un deficit di bilancio di circa il -6% suggerisce una politica fiscale molto espansiva, in realtà il contributo pubblico al Pil reale è in calo.