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Patto Sociale

Perché serve un nuovo patto sociale

L'intervento di Alessandra Servidori

La campagna elettorale è una esperienza unica e faticosa: si fanno i programmi, migliaia di volantini, e si corre dietro anche alle emergenze che di giorno in giorno cercano spazio sui giornali scoprendo spesso questioni che da anni segnaliamo con dati (con relative proposte di norme) spesso trascurate o divenute materia di interventi spot, e che diventano improvvisamente “fondamentali”.

È la questione del debito pubblico e delle risorse, della natalità mancata, dell’idea malsana di abolire il diritto tributario come insegnamento della giurisprudenza. Comincio dalla coda e dunque dalla questione che pare veramente fuori dalla realtà del diritto tributario (e, per l’effetto, il procedimento tributario) che è quella branca del diritto che si occupa di regolare i rapporti fra il contribuente e l’erario. Nel nostro ordinamento non è definito il concetto di “tributo” che dunque in dottrina viene identificato come una prestazione obbligatoria imposta e finalizzata a garantire il concorso di tutti al finanziamento della spesa pubblica, in applicazione dell’art. 53 della Costituzione, e collegata ad un fattore economico (una prestazione, un servizio, un fattore produttivo o reddituale) che deve essere prevista esclusivamente dalla legge. All’interno dei tributi sono ricompresi imposte, contributi, tasse e monopoli fiscali.

Posto che la materia è fondamentale per l’equilibrio del diritto costituzionale e del lavoro, mi auguro che chi ha lanciato questa proposta sia bloccato dal buonsenso dei decisori politici dal momento che proprio la riforma fiscale è una delle questioni di cui bisogna prioritariamente occuparsi anche in ambito europeo cercando un accordo equilibrato.

L’altra vicenda si snoda su una serie di iniziative che hanno trattato la natalità con editoriali sugli stati generali della medesima ma, come da queste pagine abbiamo più volte insistito, per la questione maternità servono interventi solidi strutturati e integrati e non bastano le decontibuzioni al lavoro femminile, dobbiamo assorbire le buone norme, nonché strumenti concreti, che nei paesi europei sono adottati con impatti positivi come i servizi per l’infanzia e la non autosufficienza, la condivisione culturale e concreta delle responsabilità familiari, le opportunità alle famiglie immigrate e non, il bilanciamento tra vita lavorativa e cura, nonché le politiche abitative.

Con i sindacati bisogna rimettere in pista un Patto sociale che potenzia anche l’organizzazione del lavoro attraverso la contrattazione del welfare aziendale e della condivisione degli utili della produttività attraverso la partecipazione dei/delle lavoratrici con una accelerazione della contrattazione di prossimità.

E veniamo alla questione debito e risorse su cui la piramide si deve piantare. Qualcuno (lo sto praticando concretamente) deve dire che noi non possiamo rimuovere la realtà. L’espansione è finita e galleggiare è molto difficile siamo in una crisi strutturale economica e così non si può andare avanti.

Un patto economico e sociale va pur fatto perché gli indicatori del Pil continuano a dirci che sì abbiamo degli ancoraggi nel risparmio privato (5mila miliardi e oltre) ma è la crescita che deve reggere il debito enorme pubblico che ci trasciniamo. Perché stiamo erodendo il famoso risparmio italiano: che fino al 2004 si era stabilizzato intorno al 11% ora è al 7%, quindi la demografia oltretutto riduce il patrimonio soprattutto immobiliare e la locazione del risparmio.

Noi abbiamo poco azionariato e meno proprietà immobiliari. Gli strumenti utili sono rappresentati dallo spostare una fetta di risparmi italiani in Btp e non solo a finanziare altri Fondi stranieri; abbiamo bisogno di manager di visione aperta e spingere la Cassa depositi e prestiti a sostenere il sistema italiano anche delle piccole e medie imprese e non nel sostegno alle imprese decotte, lavorare sulla fase di sviluppo delle aziende italiane per le imprese con incentivi e irrobustire il ruolo della Banca d’Italia per un coordinamento e una direzione equilibrata dell’accesso e facilitazione al credito.

Noi la ricchezza la collochiamo male e non aiutiamo le imprese a fare rete con burocratismi e “mancanza di una cornice di senso” mentre abbiamo bisogno di una visione e una strada intergenerazionale.

Su questo ed altro si deve irrobustire l’Italia in Europa ed lì che ci giochiamo credibilità. E potere.

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