Come è notorio la questione meridionale e la riduzione degli squilibri Nord-Sud e quali politiche attuare per ridurne la portata non nasce oggi. La locuzione “Questione meridionale” fu per la prima volta introdotta nel 1873 dal deputato radicale Antonio Billia, ma è con l’indagine di Sidney Sonnino e Leopoldo Franchetti sulla condizione della Sicilia del 1876 che si denuncia la situazione di degrado nello sviluppo al Sud.
Dopo qualche decennio, nel 1911 Giustino Fortunato esprimendosi sulla situazione del Mezzogiorno affermava: “Che esista una questione meridionale, nel significato economico e politico della parola, nessuno più mette in dubbio. C’è fra il nord e il sud della penisola una grande sproporzione nel campo delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gl’intimi legami che corrono tra il benessere e l’anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetudini, le tradizioni, il mondo intellettuale e morale”.
Da quella dichiarazione di Giustino Fortunato è passato più di un secolo ma, nonostante le innumerevoli politiche sperimentate, nonostante gli indubbi progressi economici e sociali conseguiti, siamo ancora in cerca dalla soluzione se, nel 2023, stiamo ancora ad affrontare questa situazione.
Le analisi svolte negli ultimi anni dai principali centri di ricerca economica, da quelli del Sistema camerale (da Unioncamere al Centro Studi Tagliacarne) a quelli della Banca d’Italia e della Svimez portano tutte a porsi le seguenti domande:
perché, dopo 73 anni dalla istituzione della Cassa del Mezzogiorno (legge 10 agosto 1950) il ritardo economico del Mezzogiorno rappresenta la più importante fonte di disuguaglianza per l’Italia e uno dei maggiori freni alla crescita economica complessiva del nostro Paese? Perchè un’area geografica che noi tutti per convenzione chiamiamo “Mezzogiorno” dove vive un terzo della popolazione italiana (circa 20milioni di abitanti, fonte Istat) e dove sono localizzate circa 2,1 milione di imprese su circa 6milioni imprese italiane (fonte: Infocamere) viene prodotto solo poco più di un quinto del Pil e dove si origina appena un decimo delle esportazioni nazionali?
A queste domande si è cercato di rispondere recentemente anche al “1° Forum del Mezzogiorno “Antonio Serra” – Il Sud del Paese e le sfide del XXI secolo” organizzato nel maggio scorso dalla Camera di Commercio di Cosenza, dove si è principalmente evidenziato come la bassa crescita sia stata dovuta in particolare alla crescente difficoltà del Sud nell’impiegare la forza lavoro disponibile, alla riduzione dell’accumulazione di capitale, in precedenza fortemente sostenuta dall’intervento pubblico e dalla minore crescita della popolazione rispetto alle aree più avanzate del Paese, dove si sono concentrati i flussi migratori.
I pochi segnali di vitalità – relativi, per esempio, all’andamento delle esportazioni o alla capacità di intercettare i flussi turistici internazionali (molto aumentata nel decennio precedente la pandemia) – sono stati troppo deboli e non sono stati sufficienti a ridurre il profondo arretramento dell’economia meridionale.
Inoltre, il settore privato, già fortemente sottodimensionato, si è ulteriormente contratto: al Sud si sono accentuati i tratti tipici del sistema produttivo nazionale, tra i quali il ruolo preponderante di micro imprese e di attività a controllo familiare, nel complesso meno dinamiche e più in difficoltà nell’affrontare le nuove sfide rappresentate dall’utilizzo delle tecnologie digitali e dalla transizione verde. In un contesto che vede ulteriormente cresciuto il peso delle attività tecnologicamente poco avanzate e a basso contenuto di conoscenza.
Tali caratteristiche, unite a fattori di contesto sfavorevoli come ad esempio il gap infrastrutturale, i tempi lunghi delle procedure di recupero dei crediti per via giudiziale, le lentezze della PA, le difficoltà a trarre il massimo impatto dai fondi europei, le maggiori difficoltà ad accedere al credito (mediamente un impresa del Sud, a parità di condizioni, paga un finanziamento a tassi più alti di quelle del Nord, quando riesce ad ottenerlo) e ad altre forme di finanziamento che sono scarsamente sviluppate come la “finanza alternativa” (come ad esempio il venture capital, mini bond, etc.) hanno determinato nell’ultimo ventennio una più bassa crescita della produttività unitamente a quella del Pil.
Altra criticità è rappresentata dalla struttura del mercato del lavoro. Infatti, in generale, i livelli di impiego della forza lavoro, già tra i più bassi di Europa, sono ulteriormente diminuiti negli ultimi anni, come è diminuita la qualità media dell’occupazione ed è aumentata l’incidenza del lavoro irregolare ed è maggiore l’instabilità dei rapporti lavorativi.
Sulle difficoltà economiche del Mezzogiorno pesano pure gli ampi ritardi nella dotazione di infrastrutture e nella qualità nei servizi pubblici erogati sia dagli enti locali, sia dallo Stato attraverso le proprie articolazioni periferiche. Tali divari riflettono in parte una carenza di risorse che si è aggravata nel decennio precedente lo scoppio della pandemia, durante il quale la politica di bilancio nazionale è stata in prevalenza orientata al consolidamento dei conti pubblici.
Al contempo, gli indicatori disponibili su efficienza, efficacia e correttezza dell’azione amministrativa nel Mezzogiorno appaiono significativamente peggiori della media italiana.
A causa di queste “fragilità” strutturali, le previsioni della Svimez per il Mezzogiorno segnalano per il 2023 ancora il rischio di una contrazione del PIL dello 0,4%, un peggioramento della congiuntura determinata soprattutto dalla contrazione della spesa delle famiglie in consumi, a fronte della continuazione del ciclo espansivo nel Centro-Nord (+0,8%). Il 2024 dovrebbe essere un anno di leggera ripresa sulla scia del generale miglioramento della congiuntura internazionale, unitamente alla continuazione del rientro dall’inflazione. Si stima che il PIL aumenti nel 2024 dell’1,5% a livello nazionale, per effetto del +1,7% nel Centro-Nord e solo del +0,9% al Sud.
Di fatto nel biennio 2023-2024 l’economia meridionale crescerà cinque volte in meno rispetto a quella del Nord (rispettivamente +0,5% contro +2,5%), aumentando gli squilibri regionali e condizionando negativamente l’andamento generale dell’economia italiana e dei suoi conti pubblici.
In questo contesto il ruolo giocato dal PNRR è strategico insieme all’esigenza di rivederne alcune misure di intervento e un migliore coordinamento e sinergia tra la politica di coesione, comunitaria e nazionale e il Piano stesso. A tal proposito il Piano riveste una rilevanza particolare per il Mezzogiorno con i suoi 80 miliardi di euro pari al 40% del totale (191,5 miliardi di euro).
Le risorse rese disponibili dal Piano e dall’insieme dei fondi europei e nazionali stanziate per il Mezzogiorno sono ingenti: entro il 2026 per il PNRR e il 2027 per i Fondi strutturali (oltre a eventuali proroghe al 2029) dovranno essere spesi circa 200miliardi di euro pari a circa il 50% del Pil del Sud. Una iniezione di finanziamenti che metterà a dura prova la capacità di spesa (spesso deficitaria) delle Regioni del Sud.
Inoltre, c’è una ulteriore esigenza: riformare l’insieme degli incentivi statali/regionali alle imprese e la loro razionalizzazione. Un intervento imprescindibile, se si considera che, al maggio 2023, ci sono 1.982 interventi agevolativi, di cui 229 delle amministrazioni centrali e 1.753 delle amministrazioni regionali.
Molti di essi si basano sul meccanismo del credito di imposta che, per le caratteristiche della struttura produttiva del Mezzogiorno, paradossalmente accrescono invece che ridurli gli squilibri presenti tra Nord e Sud (le imprese del Nord utilizzano maggiormente le leggi di incentivazione) e tra micro-piccole imprese e medio-grandi imprese (ad esempio gli incentivi di “Transizione 4.0” per le loro caratteristiche sono più graditi dalle seconde che non dalle prime).
A tal proposito fa ben sperare il via libera dato il 23 febbraio 2023 dal Consiglio dei Ministri alla nascita di un nuovo “codice degli incentivi” al fine di bloccare l’estrema frammentazione delle attuali politiche di incentivazione e raggiungere la piena efficienza degli interventi. Il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (MIMIT) ha 24 mesi di tempo per varare i decreti attuativi, ma occorre intervenire celermente.
Occorre, quindi, mettere in sicurezza l’attuazione del PNRR. Esso risulta essere cruciale per conseguire gli obiettivi di crescita, consolidandone la finalità di coesione economica, sociale e territoriale e potenziando le misure di accompagnamento degli Enti territoriali nella realizzazione delle opere e supportare le nostre MicroPMI che spesso hanno difficoltà ad essere informate e a progettare. Purtroppo non ci sono solo luci ma anche ombre nel Piano.
In particolare occorrerà supportare i 7.901 comuni italiani di cui 1.216 del Sud – molti dei quali hanno meno di 5.000 abitanti – che in breve tempo hanno presentato migliaia di progetti e che dovranno gestire investimenti per oltre 50 miliardi di euro con un personale insufficiente e spesso inadeguato (mancano soprattutto i profili tecnici).
A tal proposito, il problema è che i Comuni oltre a dover affrontare una capacità di spesa molto elevata hanno presentato, per criticità amministrative-gestionali, un numero di progetti estremamente polverizzato. Secondo recenti elaborazioni dei dati della banca dati Regis, oltre 50mila progetti comunali non arrivano ai 70mila euro di valore e esistono altri circa 26mila progetti di altri Enti anch’essi nella stessa categoria dell’edilizia minima.
Un problema che non è solo del Mezzogiorno. Infatti, gli appalti più piccoli non sono solo concentrati al Sud, soprattutto nelle Regioni tirreniche (in particolare Campania e Calabria), ma anche in quelle del Nord (in particolare Piemonte, Lombardia, Lazio e Marche).
Altro aspetto critico è la scarsa capacità delle nostre imprese nel loro insieme e, non solo del Mezzogiorno, di cogliere l’occasione del PNRR. Il Centro Studi Tagliacarne – Unioncamere qualche mese fa aveva rilevato che a fine 2022 solo nel 9% dei casi le imprese si erano già attivate sui progetti del PNRR e solo l’11% di esse aveva in programma di attivarsi. Ad aprile 2023 tali percentuali migliorano leggermente, rispettivamente al 15% e al 23%. Ciò significa, però, che ben il 60% delle imprese italiane resta “immobile” e molte di esse sono del Sud.
Altri dati interessanti sono riferiti alla mancanza di informazione (ben 1 impresa su 5 non conosce il PNRR) e che il principale ostacolo che le imprese incontrano nel PNRR è l’eccesso di burocrazia secondo il 45% delle imprese intervistate unitamente alla mancanza di personale interno che segua le procedure amministrative per l’attivazione (10%) e la mancanza di assistenza tecnica da parte di soggetti terzi (10%).
Questa la grande sfida che il nostro Paese insieme al Mezzogiorno dovrà affrontare e vincere nei prossimi anni. Se queste ingenti risorse messe a disposizione dal PNRR saranno impiegate adeguatamente e se saranno anche occasione di accrescere la qualità delle politiche ordinarie, il Mezzogiorno, come il resto del Paese, con il supporto dei “corpi intermedi” sempre più protagonisti in questa stagione di cambiamento (come ad esempio le Camere di Commercio), potrà conseguire un deciso miglioramento delle sue prospettive di sviluppo, assicurare ai suoi cittadini una migliore qualità della vita e favorire la riduzione degli squilibri Nord-Sud. Il fallimento non prevede “seconde chance”. La politica è allertata.