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Europa Orientale

Perché preoccupano le incertezze e le pulsioni anti-mercato dell’Europa orientale

L’immagine della nuova Europa quale paradiso della delocalizzazione non regge più. Il futuro si gioca su conoscenza e tecnologia. Ma allo stesso tempo avanza un sentimento popolare anti-mercato. L'articolo di Alessandro Napoli dall’ultimo numero del quadrimestrale di Start Magazine

 

Dalla fine della seconda guerra mondiale a oggi, l’Europa centro-orientale e l’Europa sud-orientale le hanno passate tutte: governi di unità nazionale antifascisti, ricostruzione, colpi di Stato comunisti, repubbliche popolari, riforme agrarie e allargamento della proprietà contadina e poi invece collettivizzazioni forzate della terra, soggezione all’impero sovietico e rivolte antisovietiche (alcune sanguinosissime, come quella di Budapest nel 1956), scontri interni ai partiti comunisti (arrivati all’estremo nella Jugoslavia titina), socialismo cosiddetto “reale”, economia di piano, industrializzazione forzata e  penuria di beni di prima necessità. Ma anche consumismo “socialista” (il socialismo al gulash ungherese, la motorizzazione di massa nella Ddr e in Jugoslavia), la “moda del dissenso” ma anche la repressione del dissenso (anche quando coperta da una maschera di tolleranza come nel caso della Polonia), transizione al mercato e manifestarsi di vistose differenze sociali, collasso del welfare socialista, emersione di movimenti anticomunisti liberal, guerre civili, amore e odio nei confronti dell’Occidente, ritorno di un nazionalismo simile a quello prevalente negli anni Trenta del passato secolo.

In nessun altro angolo del mondo si sono alternate, tra dolori e silenzi, situazioni altrettanto diverse e contrastanti, forse neppure in quel crogiuolo di contraddizioni di ogni tipo che è possibile rintracciare in gran parte dell’America Latina.

UN’INTEGRAZIONE ECONOMICA CHE ALLO STESSO TEMPO ESALTA E SPAVENTA

Quest’angolo europeo del mondo, così come lo conosciamo oggi, è comunque integrato economicamente con il resto del pianeta quanto mai lo è stato prima. La rilevanza del commercio con l’estero ne è una vistosa spia rivelatrice, ma lo sono anche fenomeni come la specializzazione nella fornitura di componenti per le manifatture tedesca e italiana, evidenziata dall’entità degli investimenti diretti esteri e dal traffico di perfezionamento. Di certo, la “nuova Europa” non è sola, e quindi il suo presente e il suo futuro sono strettamente connessi con quelli dei Paesi del resto del pianeta e della core Europe in particolare. Il che è più un bene che un male, ma che a molti, da quella parte che per decenni chiamavamo l’Oltrecortina, spaventa, perché le reti di protezione che bene o male (più male che bene, sostengono alcuni) impedivano a milioni di persone di vivere nella miseria, non ci sono più.

Avanza un sentimento popolare anti-mercato e anti-capitalismo che movimenti di estrema destra, dal Baltico ai Rodopi, hanno imparato a intercettare. Si tratta di una strisciante ostilità nei confronti dell’Occidente, mascherata dalla foglia di fico di una nuova cultura popolare, insegnata in certe università private, che mette al di sopra di ogni altra cosa i valori della competizione, anzi, in molti casi, una caricatura del valore della competizione, declinato come un homo homini lupus, e assurto a bussola dei comportamenti da seguire per non finire dalla parte dei perdenti.

CONOSCENZA E TECNOLOGIA CHIAVI DELLA NUOVA SFIDA INDUSTRIALE

L’immagine della nuova Europa quale paradiso della subfornitura e della delocalizzazione dietro l’angolo di casa comincia a non reggere quanto anche solo un decennio fa. Non sono pochi i casi di imprese occidentali che spostano i propri impianti localizzati in questa parte del continente con il vero obiettivo di delocalizzare ulteriormente verso luoghi ritenuti ancora più convenienti, al di là di mari e oceani. A farlo sono, ovviamente, le imprese a maggiore intensità di lavoro per unità di prodotto, e anche quelle a più alta intensità di capitale.

Ci sono Paesi che hanno capito che il modello di reparto decentrato della manifattura europea occidentale comincia a vacillare ed è destinato a non reggere neppure nel breve-medio periodo. E per questo stanno adottando una politica industriale che non è fatta solo di attrazione di investimenti diretti esteri (IDE) a ogni costo.

Sono i Paesi che giocano su uno scacchiere diverso, quello dell’incoraggiamento di attività economiche a maggiore intensità di conoscenza e di tecnologia (anche rivolte al mercato interno). Puntando soprattutto sullo sviluppo del terziario, sostenuto dalla disponibilità di una forza-lavoro qualificata e competitiva, che ne caratterizza il profilo complessivo dell’offerta di lavoro. Non li cito tutti, ma voglio evidenziare il fatto che in quei Paesi si registra un boom delle costruzioni destinate a essere utilizzate proprio per quelle attività.

BUDAPEST, BELGRADO E VARSAVIA CHE VUOL SPODESTARE BERLINO

Il fenomeno riguarda sia le aree dismesse o da rinnovare all’interno dei centri urbani sia zone di espansione, e attira investitori sia stranieri che domestici: grandi operazioni sull’immobiliare per il terziario (inclusa la logistica) stanno infatti interessando per esempio Varsavia (che punta a soppiantare Berlino come porta dell’Est), sia Budapest, che ambisce a entrare su questo stesso terreno in concorrenza con Vienna, sia anche Belgrado, che vuole affermarsi come porta logistica e polo direzionale di tutti i Balcani.

L’Europa centro-orientale e sud-orientale sta sviluppando ambizioni. Ma, come si accennava, queste devono misurarsi con il fatto che l’integrazione con il resto del continente e con il resto del mondo ha i suoi vantaggi ma anche i suoi svantaggi. Nel breve-medio periodo gli svantaggi stanno principalmente nel fatto che questa area, per alcuni versi ancora fragile, si trova più esposta che mai ai contraccolpi di shock settoriali e di fattori esogeni assolutamente non controllabili. Il caso dell’impennata dei prezzi dell’energia, cui assistiamo oggi e che è ipotizzabile non sia un fenomeno contingente né transitorio, ne è un esempio.

Anche per questa porzione del Continente, la parola chiave per immaginarne il futuro è solo una: “incertezza”. E qualsiasi modello previsionale realizzato per proiettare le dinamiche economiche e sociali negli anni futuri non può fare a meno di prenderla in conto. I passi avanti compiuti in questi decenni sono stati molto significativi, ma nulla può essere dato per acquisito una volta per tutte. D’altra parte, il progresso non è mai lineare, neppure da queste parti.

 

È possibile scaricarne gratuitamente la versione digitale in pdf utilizzando questo link: https://www.startmag.it/wp-content/uploads/SM_16_web.pdf.

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