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manovra

Perché non è allegra la situazione della finanza pubblica

Il commento di Giorgio La Malfa

Entro il 10 di aprile, cioè fra poco più di un mese, il Governo dovrà presentare al Parlamento il Def, il Documento di Economia e Finanza, nel quale, oltre a fare il punto sull’andamento dell’anno in corso, dovrà indicare le linee di politica economica per il triennio successivo, cioè dovrà cominciare a delineare la legge di bilancio da presentare nel prossimo autunno.

Così come stanno oggi le cose, le prospettive economiche per l’Italia sono particolarmente negative e il quadro è molto difficile. I dati più recenti indicano un sensibile rallentamento dell’economia europea sia per le difficoltà dell’economia mondiale che si riflettono sulle esportazioni della Germania, sia per le incertezze connesse alla vicenda della Brexit. Ma mentre l’Europa rallenta, tutti gli osservatori concordano sul fatto che l’economia italiana è completamente ferma, come all’inizio del decennio, e sta cominciando ad andare all’indietro.

Per chiunque segua con attenzione questi problemi, alla preoccupazione che nasce da questi dati si aggiunge il fatto che non vi è alcun segnale che in seno al Governo si sia iniziato a ragionare intorno a questa situazione. Si leggono dichiarazioni di circostanza da parte di esponenti della maggioranza sul fatto che le misure prese nella legge di bilancio 2019 avranno effetti positivi già nella seconda metà dell’anno, ma non risulta alcuna seria considerazione della situazione che si va profilando e dei possibili modi per farvi fronte.

Si può comprendere che, all’indomani di un risultato elettorale disastroso per uno dei due partiti della coalizione e tutt’altro che incoraggiante per l’altro e di fronte alla difficoltà di chiudere i dossier già aperti sul tavolo del Governo – le richieste delle regioni del Nord di trattenere per sé grossa parte del gettito fiscale, la questione della Tav, le divergenze sul disegno di legge sulla legittima difesa, solo per citare le questioni più spinose – i due partiti di maggioranza non abbiano alcun desiderio di aggiungere altre questioni con il rischio di confermare l’immagine di paralisi che probabilmente sta già facendosi strada nella pubblica opinione. Tuttavia non si capisce che cosa abbiano da guadagnare nel rinviare l’esame del problema economico e le sue conseguenze sulla finanza pubblica. Si tratta di una questione che non facendo niente può solo farsi più difficile.

L’arresto dell’economia italiana avrà un impatto nei prossimi mesi sia sui dati dell’occupazione, sia sulla cassa integrazione guadagni, ma prima ancora il problema si scaricherà sulla finanza pubblica e di lì con ogni probabilità sullo spread fra il rendimento dei titoli italiani rispetti ai titoli tedeschi e, a cascata, sul sistema bancario.

I conti della finanza pubblica sono presto fatti. A dicembre, per non incorrere in una procedura di infrazione da parte della Commissione europea, il Governo ha convenuto che nel 2019 il rapporto fra il deficit e il reddito nazionale debba essere pari al 2 per cento circa (l’1,9 per l’esattezza). Quel calcolo si basava sulla previsione del Governo che il reddito nazionale italiano sarebbe cresciuto nel 2019 dell’1,2 per cento. Oggi tutti gli osservatori concordano nel ritenere irrealizzabile quell’obiettivo e convengono in una previsione di una crescita compresa fra lo 0 e lo 0,6 per cento. Se il dato fosse quello medio, lo 0,3, sarebbe quasi un punto netto di meno del previsto.

Questa minore crescita – a meno di interventi correttivi, cioè della cosiddetta “manovra” che il governo smentisce che verrà fatta – è destinata a riflettersi direttamente sul rapporto deficit-Pil e a farlo salire almeno di quanto diminuisce la crescita del reddito nazionale. Cioè se il reddito cresce un punto in meno del previsto, per ciò stesso il rapporto deficit-Pil cresce di un punto, cioè sale dal 2 al 3 per cento. E la situazione rischia di essere ancora peggiore perché le spese pubbliche sono tendenzialmente indipendenti dall’andamento del reddito nazionale, mentre le entrate fiscali sono legate all’andamento del reddito, cosicché crescendo meno l’economia scendono le entrate fiscali rispetto al previsto.

Di fatto possiamo ritenere acquisito ad oggi che il rapporto deficit-Pil del 2019 schizzerà in alto dall’1,9 per cento promesso alla Unione europea al 3 per cento, se non di più. E l’effetto si riverbererà anche sul 2020 e sugli anni successivi che sono già aggravati in prospettiva dalla famosa questione degli aumenti dell’Iva ancora una volta rinviati di un anno in attesa di misure di contenimento della spesa pubblica di cui non si vede traccia.

Dunque c’è già oggi nella finanza pubblica un buco di circa un punto di reddito nazionale, cioè di circa 16 milioni di euro che il governo dovrebbe trovare in corso d’anno per evitare di partire nella redazione del bilancio del 2020 con un accumulo di problemi quasi impossibili a risolvere.

Se questa sarà la situazione della finanza pubblica nei prossimi mesi, il Governo dovrà per forza fare una manovra restrittiva con maggiori imposte o minori spese per evitare che lo squilibrio si trasferisca allo spread e dallo spread alle banche e alla borsa. L’alternativa sarebbe rappresentata da una politica capace di sostenere l’economia ed evitare la flessione che oggi sembra inarrestabile. Ma politiche di questo genere richiedono di essere studiate bene, messe a punto con cura, spiegate all’Europa e ai mercati e messe in opera tempestivamente. Potrebbe trattarsi di un quadro di sostegno degli investimenti privati, ma bisognerebbe sapere a quali condizioni essi potrebbero manifestarsi. Potrebbe essere un rilancio degli investimenti pubblici, ma è chiaro che con la questione Tav sul tappeto nessun proposito di questo genere appare realistico. Un aumento del deficit purchessia non solo non sarebbe accettato dall’Europa, ma rischierebbere di alimentare un’ondata di sfiducia sui mercati finanziari.

Questo è il quadro ad oggi. Se il Governo ha intenzione di evitare questo corso, deve muoversi e deve farlo subito.

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