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Risalita Pil

Perché l’Italia e l’Europa sono in un vicolo cieco

Che cosa si è detto nel corso del convegno organizzato dalla Fondazione Rel. Le tesi di Gianfranco Polillo

 

Un vicolo cieco dal quale è quasi impossibile uscire. Questa la situazione dell’Italia, stretta fra tre crisi: politico-istituzionale, economico-finanziaria, geopolitica. Esattamente il titolo del convegno organizzato dalla Fondazione Rel e che ha visto la partecipazione tra gli altri dell’ex sottosegretario al ministero dell’Economia Gianfranco Polillo e del presidente della Fondazione Liberal Ferdinando Adornato.

“Oltre al tramonto della centralità dell’individuo”, sostiene Adornato, ci troviamo di fronte “anche a un grande attacco alla democrazia rappresentativa”. C’è di più: il concetto di “democrazia illiberale è assolutamente usabile oggi” con la parola democrazia che “si tiene solo perché ogni tanto si vota”.

A livello economico i numeri parlano chiaro: per l’anno in corso la variazione acquisita è pari allo 0,1% e le previsioni di crescita si mantengono all’interno di quest’orizzonte. Per questo, sostiene Rel, la manovra di bilancio, per il prossimo anno, dovrà trovare risorse pari ad almeno 30 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva e per le spese indifferibili. Due le alternative possibili per il Paese: deflazione o aumento del deficit.

LA DEFLAZIONE

Una politica deflattiva, spiega Polillo, ex componente del governo Monti, deve prevedere un aumento delle imposte, a cominciare da quello dell’Iva su cui il governo tentenna o una riduzione della spesa pubblica. Ne deriverebbe una stretta sulla domanda interna pari a circa 2 punti di Pil. Si ricadrebbe, così, nell’esperienza del 2012: allora la distanza dell’Italia dal resto dell’Eurozona fu massima con una caduta del Pil pari al 2,8% contro uno 0,5% scarso dell’Eurozona. La decrescita del Pil italiano, ricorda, risultò comunque attenuata “dallo straordinario andamento dell’estero che compensò, seppure in parte, una caduta della domanda interna di oltre 5,3 punti”.

L’AUMENTO DEL DEFICIT

L’altra strada possibile per il nostro Paese, altrimenti, è quella dell’aumento del deficit. Già le proiezioni attuali indicano nel 2020 un deciso superamento del 3% con conseguente aumento del rapporto debito-Pil, già previsto in crescita al 135,2. Numeri che portano Polilo a rammentare un monito della Banca Italia: “L’alto livello del debito rende l’economia italiana esposta alle tensioni sui mercati finanziari e riduce la capacità della politica di bilancio di sostenere l’attività produttiva di fronte alle fasi di rallentamento”. In tale quadro “preoccupano le reazioni europee, ma soprattutto quelle dei mercati. Un aumento degli spread condurrebbe al credit crunch e dunque alla riduzione del tasso di crescita”. Comunque quello del debito pubblico rappresenta “un” problema ma non “il” problema. “L’Italia è sempre convissuta con il fardello del debito – sostiene Polillo -. Se non è morta schiacciata è solo perché è riuscita ad avere delle compensazioni”.

PERCHE’ L’ITALIA NON CRESCE PIU’

Una riflessione che nasce da quanto detto è relativa ai motivi per cui l’Italia non cresce più. “Si è detto (giustamente) che molte delle cause sono da attribuire a come si è entrati nell’euro – spiega -. I dubbi allora erano rilevanti ed erano stati espressi non solo dai socialisti, ma dallo stesso Luigi Spaventa, economista di punta della Sinistra indipendente, e dallo stesso Antonio Fazio, governatore della Banca d’Italia”. L’ultima svalutazione monetaria (1992-1993) aveva fatto recuperare competitività e determinato una forte crescita del Pil, poi la necessità di rispettare i criteri di convergenza (tasso di inflazione, deficit, bilancia pagamenti, debito, tassi d’interesse a lunga) aveva portato a una politica monetaria più restrittiva. A partire dal 1997 c’è stata poi una rivalutazione progressivo del cambio e una perdita di competitività; infine l’ingresso nell’euro con un tasso di cambio (già stabilizzato dalla politica restrittiva) pari a 1.936,27 lire. Un cambio troppo alto, secondo Polillo, che “ha determinato il progressivo spiazzamento dell’economia italiana. Il movimento è stato lento proprio grazie all’ingresso nell’euro che ha comportato una forte riduzione dei precedenti tassi d’interesse di cui ha beneficiato il bilancio pubblico (dal 11% del Pil del 1996 al 4,4 del 2006) ma anche le aziende che hanno goduto di una maggiore disponibilità di credito”. Si tratta di una situazione che è terminata nel 2011 con gli spread a 574 punti base e che è stata seguita dalla svolta deflazionistica di Monti.

LA RESILIENZA DELL’ECONOMIA ITALIANA

L’economia italiana però, secondo l’ex sottosegretario, è piuttosto resiliente: già nel 2012 si era in larga misura riconvertita, con i fallimenti delle imprese meno competitive e il deficit con l’estero che da meno 3 per cento del Pil si era ridotto allo 0,3. “Poi l’accanimento (ingiustificato) per paura del contagio greco ha prodotto la definitiva torsione di un ‘modello di sviluppo’ – prosegue – che ora si regge quasi esclusivamente sulle esportazioni. Per molti versi siamo tornati agli anni ’60. Dal 2013 in poi l’avanzo corrente con l’estero si colloca intorno al 2,5-3% del Pil, quasi 50 miliardi l’anno, destinati a durare, secondo le previsioni, anche nel prossimo triennio”. Per corroborare quanto detto, Polillo cita ancora una volta la Banca d’Italia secondo cui “l’economia italiana è caratterizzata da un’elevata resilienza, derivante da diversi fattori: il saldo corrente della bilancia dei pagamenti è in attivo dal 2013, mentre la posizione netta verso l’estero è lievemente negativa e dovrebbe diventare creditoria nel corso del prossimo anno; la ricchezza delle famiglie è elevata e l’indebitamento del settore privato è tra i più bassi nell’area dell’euro; la lunga vita media residua dei titoli di Stato rallenta la trasmissione del rialzo dei rendimenti all’emissione al costo medio del debito”.
Ma – e questa è la domanda centrale – può reggere un simile modello? “Da un punto di vista macro, il surplus con l’estero determina accumulo di risparmio interno – chiarisce Polillo – ma il problema italiano è quello di creare le condizioni, grazie ad una politica economica pro growth, per riconquistare le posizioni perdute”. Per questo, rileva, occorre “un governo credibile sul piano internazionale capace di portare avanti politiche in deficit, ma solo se destinate alla crescita effettiva” e cioè puntare su “investimenti e riforma del sistema fiscale”.

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