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Consiglio Europeo

Perché l’euro non ha festeggiato i suoi primi 20 anni

Il commento di Giorgio La Malfa, economista ed ex ministro delle Politiche comunitarie

 

Venti anni di questi giorni aveva inizio l’avventura della moneta unica europea. Mentre nel 2009 il decennale venne accompagnato da grandi discorsi retorici a Bruxelles e a Francoforte sul successo dell’euro e le magnifiche sorti che questo assicurava all’Europa, quest’anno le autorità hanno mantenuto un atteggiamento prudente. Alla ricorrenza ha accennato il Presidente della BCE Mario Draghi in un discorso all’università di Pisa il 15 dicembre scorso; uno dei membri del Consiglio della Banca ha dato un’intervista alla radio tedesca e poco più.

Pesa evidentemente il ricordo delle traversie dell’euro poco dopo le celebrazioni del decennale, quando intervenne la crisi greca e il fatto che Draghi in quell’occasione dovette dichiarare che la Banca Centrale Europea avrebbe fatto tutto il necessario per salvare l’euro, una dichiarazione che, se calmò i mercati, costituiva nello stesso tempo l’ammissione dalla sede più autorevole della precarietà dell’euro: né l’Inghilterra, né gli Stati Uniti, né la Cina avrebbero bisogno di dichiarare che sarebbe stato fatto il necssario per salvare le loro monete. Ma ancor più di questo ricordo, pesa il fatto che l’euro continua a non piacere a una parte significativa dei paesi che pure l’hanno adottato. Se in Italia la fiducia nell’euro appare aumentata rispetto alo scorso anno (un’evoluzione che dovrebbe fare riflettere i due partner di governo), in Germania essa risulta diminuita quasi di altrettanto e in molti altri paesi il gradimento dell’euro è basso.

Dunque la prudenza è necessaria. L’euro c’è ed è destinato a continuare, ma, come ha scritto ancora qualche giorno fa un acuto giornalista americano, i suoi fattori di debolezza non sono stati curati. E soprattutto non possono essere curati.

Si può fare un bilancio dell’euro? Ovviamente poiché non possiamo sapere quale sarebbe stata la situazione europea senza l’euro è molto difficile fare discorsi accurati. A favore dell’euro vi è il suo ruolo come moneta di riserva sul piano internazionale e questo gli conferisce una certa stabilità che le singole monete europee difficilmente avrebbero potuto e potrebbero avere da sole. Ma di contro vi è l’andamento economico dell’area dell’euro in questi anni che è stato sostanzialmente insoddisfacente non soltanto in confronto alle economie asiatiche che forse viaggiano in una diversa categoria, ma anche rispetto agli Stati Uniti e anche ai paesi europei che non aderiscono all’euro. Questo è il vero tallone di Achille dell’euro.

La ragione di questo andamento negativo, che forse molti dei sostenitori dell’euro negheranno, è che l’Unione Monetaria Europea è dominata dalla preoccupazione degli squilibri di finanza pubblica di alcuni paesi e della possibilità che si creino questi squilibri e quindi viaggia con il freno tirato, cioè con regole di finanza pubblica che spingono verso la recessione invece che verso lo sviluppo. Alcuni paesi che sono liberi da questi problemi, come la Germania, non soffrono le conseguenze di queste politiche, ma altri, forse la maggioranza degli altri, finisce per crescere al di sotto delle sue potenzialità.

In realtà il problema delle regole restrittive è il riflesso di un problema ancora più di fondo, di un vizio di origine che non si può curare. La moneta richiede dietro di sé una sovranità politica. Se dietro di essa non vi è una sovranità politica, la moneta comune diventa un semplice accordo di cambi fissi che richiede quasi inevitabilmente delle regole restrittive. I padri fondatori dell’euro sapevano in realtà che questa era la situazione e fino a un certo punto procedettero con cautela evitando di mettere la unificazione monetaria davanti all’unificazione politica. Ma alla fine degli anni 80, quando vi fu la riunificazione tedesca, la Francia decise che fosse indispensabile accelerare l’integrazione europea per frenare l’autonomia della Germania. E si pensò di invertire il processo: invece di attendere la nascita di uno stato federale europeo per dotarlo di una moneta unica, si decise di costruire la moneta contando che questo vincolo avrebbe reso comunque indissolubile il legame fra i paesi dell’Europa e li avrebbe indotti ad accelerare il processo di integrazione politica.

Fu questo l’errore tecnocratico degli europeisti di quel tempo: l’errore di pensare che un processo di unificazione politica potesse essere reso necessario da un passo economico impegnativo come quello della moneta unica. Ma i popoli europei non erano pronti allora e ancor meno lo sono oggi al passo dell’unificazione politica. Non è alle viste un governo europeo eletto direttamente o indirettamente dai cittadini europei. L’Europa rimane una alleanza di stati sovrani che oltretutto sono oggi premuti dalle opuinioni pubbliche a recuperare spazi di sovranità nazionale. La moneta è un vincolo mal sopportato e tale resterà in futuro.

Nei momenti economici favorevoli, la moneta può sopravvivere perché non sono necessarie decisioni difficili: il sistema funziona da solo. Ma quando le condizioni economiche divengono più difficili, quando alcuni dei paesi membri sono vicini alla piena occupazione e quindi non hanno bisogno di una moneta facile, né di tassi di interesse bassi, mentre altri hanno esigenze di sviluppo e quindi di bassi tassi d’interesse ed anche di sostegni alle proprie economie con il disavanzo pubblico, il conflitto si accende ed è destinato a inasprire i rapporti politici. E questo rende a sua volta ancora più difficile quell’avvicinamento fra i popoli europei che sarebbe richiesto dal progetto di integrazione politica.

Dunque l’euro rimane il vincolo rigido di un raggruppamento di Stati che non va verso una maggiore unione e diviene un fattore di crescente ostilità nei momenti di difficoltà perché non vi è una politica buona per tutte le diverse situazioni interne all’unione.

Quanto può durare una situazione così fatta? Dipende da tanti fattori, compresa la pazienza dei vari paesi e la capacità di accettare senza protestare situazioni difficili. Sapremo fra molti anni se la decisione di imporre un vincolo così stretto ai popoli europei ha impedito una disgregazione che poteva minacciare l’Unione o invece ne ha creato le condizioni. Nel frattempo risalta la solitudine dei singoli paesi davanti ai propri problemi.

Ne abbiamo avuto un esempio lampante nelle vicende confuse del bilancio dello Stato delle scorse settimane. L’Europa non può essere soddisfatta dell’esito perché sa che l’Italia non è avviata verso un miglioramento dei conti pubblici. Non può essere soddisfatta l’opinione italiana perché sa che il Governo, che aveva promesso ai cittadini una ripresa della crescita, ha dovuto fare propria una politica che conferma l’imminente recessione italiana. Situazioni analoghe vi sono in molti paesi, a cominciare dalla Francia. Per questo i problemi sono davanti a noi e le autorità europee rinunciano alle celebrazioni.

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