La vicenda del tentativo di conquista del controllo della banca tedesca Commerzbank da parte di Unicredit è raccontata in questi giorni come se fosse un remake di “Italia-Germania 4-3”. All’insegna di un sovranismo all’amatriciana degno di miglior sorte.
Sembrerà strano ma noi non troviamo nulla di strano o criticabile nelle ultime parole del Cancelliere Olaf Scholz, pronunciate a margine dell’assise dell’Onu a New York. Anzi, le troviamo abbastanza opportune e appropriate.
Così come troviamo inopportuni e inappropriati altri commenti, tutti col “petto in fuori” a rivendicare l’orgoglio italico che spavaldamente cinge d’assedio il nemico teutonico che batte in ritirata. Scenari buoni per una partita di calcio, non per una vicenda dalle mille sfumature, la cui conclusione è peraltro tutta da scrivere.
C’è un fatto che è discriminante in questa vicenda e che sembra essere dimenticato dai più. La Germania è l’azionista di riferimento, con il 12%, di Commerzbank. Il Cancelliere, quando parla di Commerzbank, lo fa nel ruolo di più importante azionista della banca.
E, da che mondo e mondo, quando un terzo acquista le azioni di una società mettendo in discussione il controllo del preesistente azionista, senza un preventivo accordo e coordinamento conquest’ultimo, è perfettamente usuale che l’azionista si difenda e faccia le barricate. Le scalate ostili esistono solo nei film di Hollywood. Prima si negozia, poi si comprano le azioni. Se si vuole fare il contrario, come ha fatto Unicredit, cosa ovviamente legittima, è molto raro camminare sul velluto di guide rosse stese per l’occasione. Forse Andrea Orcel si attendeva un comitato d’accoglienza festante? È invece usuale
Questo ha fatto Scholz quando ha parlato di «Attacchi non amichevoli, acquisizioni ostili non sono una buona cosa per le banche… Il governo dice chiaramente: noi riteniamo che non sia adeguato in Europa e in Germania procedere con metodi non amichevoli, senza alcuno spirito di cooperazione e senza concordare nulla, per partecipare ad un’impresa».
Dov’è la novità e la notizia in queste parole? È ciò che accadrebbe nella stragrande maggioranza di casi simili a questo.
Con l’aggravante – che giustifica ulteriormente le parole di Scholz – che si tratta di un’impresa bancaria, quindi operante in settore altamente regolato, la cui attività impatta sensibilmente sull’occupazione, sulla stabilità finanziaria e sull’economia in generale della Germania. Questo rende l’azionista di riferimento ancor più guardingo e scettico verso ingressi nella compagine azionaria non concordati e coordinati.
Quindi non c’entra niente l’Unione Bancaria – proprio perché è l’azionista che sta parlando – a meno che da domani qualsiasi scalata ostile sia da considerarsi benvenuta solo perché prevale l’interesse superiore di creare delle “JP Morgan” europee, qualsiasi cosa, cioè nulla, voglia dire.
Desta perplessità anche il paragone che oggi abbiamo letto sul Sole 24 Ore («come si sarebbe comportato il presidente francese Macron davanti a un’incursione degli spagnoli di Santander, per esempio, su Societe Generale?)». Paragone inappropriato, per il semplice motivo che Societe Generale non è sotto il controllo del governo francese. E l’eventuale intervento del governo francese avrebbe, quello sì, avuto carattere protezionistico e lesivo della libertà di concorrenza e dell’integrità del mercato unico.
Altrettanto fuori fuoco appare il commento di Federico Fubini oggi sul Corriere della Sera, quando fa notare che «negli ambienti finanziari molti notano l’assenza o la debolezza di una sola voce: quella del governo italiano che, dopo aver parlato tanto di nazione, piò chiedere che le regole europee siano rispettate a difesa degli operatori del Paese».
Non ci sembra di ricordare che il ruolo del governo preveda anche la compressione del diritto/dovere di difendersi da parte di un azionista di controllo, che vale anche quando quel ruolo sia ricoperto dallo Stato.
Ugualmente strumentalizzato in chiave di braccio di ferro Italia-Germania anche le dichiarazioni della portavoce della Commissione Ue Veerle Nuyts: le fusioni tra istituti di credito europei «potrebbero rendere le banche più resilienti agli shock grazie alla maggiore diversificazione degli asset. E consentirebbero alle banche europee di avere modelli aziendali più efficienti, perseguire strategie di crescita e investire nella digitalizzazione».
Da cui sorge spontanea la domanda: e se chi controlla Commerzbank volesse resistere a Unicredit, rilanciando o chiamando un cosiddetto cavaliere bianco, che si fa? Lo si costringe all’immobilità, espropriandolo di fatto?
Chi ha colto il punto è il ministro delle finanze Christian Lindner, secondo il quale «lo stile dell’approccio di Unicredit ha sconvolto molti azionisti in Germania ed è per questo che il governo tedesco ha deciso di non vendere ulteriori azioni».
Unicredit ha scelto un approccio “muscolare”, molto più vicino a un take over ostile che a un’operazione concordata. Una sorta di bastone e carota. Però, su questa prima strada, ha deciso di non andare fino in fondo, giustamente timorosa di una reazione della controparte e non avendo piena visibilità sulle sinergie di costo ottenibili dall’incorporazione di Commerzbank.
Ha quindi dato un primo “strappo” – rastrellando il 4,5% sul mercato, comprando il 4,5% dallo Stato tedesco e accumulando opzioni per un residuo 11,5% – nella convinzione di sedersi a parlare con i tedeschi per disegnare insieme il futuro di Commerzbank, forte di un pacchetto di azioni già consistente. Un approccio atipico, aperto a qualsiasi esito.
A questo punto, Unicredit giochi le sue carte e non si dolga – utilizzando strumentalmente metafore calcistiche e tirando per la giacchetta il governo italiano – se legittimamente lo “scalato” respingesse lo “scalatore”. È il libero mercato, bellezza!