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Esselunga

Perché in Esselunga il lavoro sarà poco smart

Ecco le ultime novità in Esselunga sul lavoro agile. Il punto di Mario Sassi

Ciascuna azienda organizza il lavoro come crede. C’è però una sostanziale differenza tra chi immagina il futuro per il proprio business comprendendo il benessere dei propri collaboratori e chi no. C’è chi resta nel solco tradizionale prevedendo attività e servizi ricreativi vicini al posto di lavoro attraverso forme di welfare aziendale più o meno innovativo. E c’è chi prova a ripensare il lavoro in termini di durata, luogo, contributo, coinvolgimento e qualità percepita e agìta dai collaboratori. Brunello Cucinelli direbbe: “questo è il tempo dell’armonia, oltre che della sostenibilità. Al centro ci deve essere sempre la persona”. Per comprenderne la differenza bisognerebbe provare ad affrontare il tema cambiando punto di osservazione.

Il futuro del lavoro fa leva  sulla responsabilità dei collaboratori, non sul loro controllo. Non sarà il luogo, il tempo perso per arrivarci, il presenzialismo oltre l’orario, l’autorità del capo attraverso il “potere della scrivania” a caratterizzare l’azienda (intesa come comunità operosa). È la sostanziale differenza tra ritenere le persone al lavoro, “collaboratori ” e non semplicemente “dipendenti”. Ed è il rapporto instaurato, l’ascolto, il riconoscimento dell’impegno e la comunicazione scelta a fare la differenza. Lo smart working non è, ovviamente, tutto questo ma rappresenta un tassello di un cambiamento più vasto, per certi versi inarrestabile. Peccato non averlo saputo cogliere. Così come aver accompagnato il suo ridimensionamento in Esselunga con una comunicazione d’altri tempi, inutilmente spigolosa, che l’impegno quotidiano dell’insieme dei collaboratori non meritava.

Tra l’altro l’azienda di Pioltello era stata una delle poche realtà della GDO che avevano implementato il lavoro agile per oltre 1200 dipendenti. Costretti dalla pandemia e dal lockdown l’insegna aveva fatto un salto (forse) involontario nel futuro. Sembrava avesse accettato l’idea che i collaboratori fossero responsabili, in grado di gestire il lavoro da casa per 6 giorni al mese (12 giorni al mese per i genitori con figli). Alla lunga, la cultura manageriale prevalente, non ha però retto la sfida. È come se, fosse riemersa, per limiti oggettivi, la mancanza di un approccio professionale nella gestione delle risorse umane, in grado di conciliare le  esigenze organizzative dell’azienda con quelle delle persone.  Un’azienda dai due volti. Quella che guarda avanti con ESSELAB e il robot che prepara le insalate a Mind e quella che osserva i suoi collaboratori  con lo specchietto retrovisore. Dal 1 aprile e fino al 31 marzo 2025 quindi si cambia. La voglia di averli finalmente tutti indietro e tutti in fila è stata troppo forte. E, soprattutto, vestiti come si deve. E l’ordine viene dall’alto.

In Esselunga si è così deciso di comprimere l’utilizzo del cosiddetto lavoro agile. E perché fosse chiaro a tutti, il clima auspicato internamente, a fianco dello stringato comunicato è comparso in bacheca un duro richiamo formale composto da cinque regole. Devo ammettere che, quella sul dress code aziendale richiesto, appare veramente come una sottolineatura fuori dal tempo. Un monito così severo da meritare un richiamo collettivo non può non sorprendere. Quale abbigliamento esibito può aver scatenato nella mente dell’estensore la necessità di tale puntualizzazione? Cosa nasconde l’invito perentorio  di “Indossare un abbigliamento sobrio e adeguato allo “stile Esselunga” essenziale e segno di rispetto per l’azienda che si rappresenta?” E quale sarebbe la sobrietà richiesta dallo “stile Esselunga” nel 2024? Tralascio poi gli altri “aspetti cruciali relativi all’organizzazione del lavoro” che invitano al riassetto delle sale riunioni o ad evitare di lasciar squillare i telefoni altrui e a far attendere ospiti e fornitori. Fatti che, se veramente accaduti, segnalerebbero un lassismo organizzativo difficile da credere in Esselunga. Il pesante richiamo, segnala, per alcuni, una evidente caduta di stile e la presenza di un eccessivo nervosismo interno, mentre per altri, la sensazione che stia venendo meno un sistema riconosciuto, per la sua efficienza, essenzialità e austerità. Ma tant’è.

Purtroppo però non è solo Esselunga a innestare la retromarcia. Un numero sempre maggiore di aziende stanno obbligando lavoratori e lavoratrici a tornare in ufficio. Una scelta che va contro la volontà di gran parte dei dipendenti. Sembra prevalere l’idea che il ritorno alla scrivania sia l’unico modo per tenere sotto controllo i proprio collaboratori e ottenere prestazioni, comportamenti e rendimenti desiderati. Gli esperti si sono confrontati sulla differenza di produttività tra i due modelli. Non solo in Italia. Secondo il Wall Street Journal sarebbero circa 12 minuti in più di produttività al giorno per i lavoratori in sede. Un risultato a favore di questa ipotesi, ma non così dirompente. Al contrario Bloomberg riporta i risultati di un’altra ricerca che indica come lavoratrici e lavoratori in smart working siano il 13% più produttivi dei colleghi in sede. La lista di risultati contrastanti può andare avanti ancora a lungo, ma il risultato è lo stesso: al momento non ci sono prove che decretino un vincitore definitivo.

Tra “office first” e “remote first” ci sarebbero una varietà possibile di applicazioni dettate dal buon senso. Esiste però la convinzione che sia riemerso un approccio presenzialista radicato nella testa di molti manager in un range di età tra i 40 ai 60 anni. Senza parlare degli imprenditori (indipendentemente dall’età) legati a vecchi modelli di gestione. Secondo Enrico Verga consulente strategico e istituzionale si può riassumere questo in “se non ti vedo lavorare allora non lavori”. “È una visione che più o meno corrisponde a un modello di operatività del secolo scorso (senza frustate che non van più di moda). Il mondo degli uffici è evidente che non morirà mai ma la sua concezione come locus laboris è ormai passata. Resta però la necessità di monitorare, in senso benigno senza frusta, l’efficienza dei lavoratori”.

C’è poi una differenza sostanziale tra lo Smart working che determina una gestione autonoma del lavoro una volta fissati gli obiettivi e il remote working, in cui si lavora in remoto ma alle stesse condizioni di quelle del tradizionale posto di lavoro. Ma al di là di queste differenze si ritorna sempre ad un punto cruciale nella gestione delle risorse umane: il clima che imprenditori e manager creano, o compromettono, con i loro atteggiamenti, nei confronti dei collaboratori. Vicini o lontani poco importa.

 

Articolo pubblicato su mariosassi.it

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