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Perché contesto la crociata di Di Maio contro lo shopping domenicale

Il commento dell'editorialista Giuliano Cazzola

’Domenica è sempre domenica. Si svegli la città con le campane. E al ‘’din don’’ del Gianicolo, Sant’Angelo risponde ‘’din don dan’’. Così iniziava la sigla di chiusura di un fortunato programma televisivo (Il Musichiere: allora gli italiani guardavano, in bianco e nero, solo quanto ‘’passava il convento’’) che andava in onda il sabato sera e che era condotto, da un ‘’grande’’ dell’epoca, quel Mario Riva che morì prematuramente, il 21 agosto 1960, a seguito di un infortunio sul lavoro, mentre stava andando in scena.

Nel 1960 avevo 19 anni, reduce dall’esame di maturità e pronto ad affacciarmi alla vita. Non mi sarei mai aspettato di tornare ai tempi della mia giovinezza, grazie ad un giovane ministro del Lavoro, seguace delle teorie secondo le quali meno si lavora meglio è, anche a costo di restare disoccupati (tanto c’è il reddito di cittadinanza).

In verità, gli anni dell’obbligo di chiusura domenicale dei negozi sono durati a lungo, fino alla liberalizzazione introdotta dal governo Monti. Tutto però lasciava credere che quella misura – sia pure recente – sarebbe stata irreversibile (come il divieto di fumare nei locali pubblici e aperti al pubblico), per la semplice ragione che era stata bene accolta e che corrispondeva ad una banale regola di buon senso. Eppure, già a quei tempi, si celebrò, in diversi Paesi del Vecchio Continente (non più sazio, ma sempre disperato) la.

Naturalmente i sindacati italiani (insieme alla Confesercenti) non si fecero mancare l’occasione di prendere parte all’iniziativa, in polemica con le misure di liberalizzazione degli orari e delle aperture domenicali e festive varate dal governo, le quali, ad avviso delle parti sociali, “non creano nuovi posti di lavoro ma esauriscono chi c’è già con turni pesanti e richieste di eccessive flessibilità”. Per fortuna, i lavoratori furono molto più saggi di chi pretendeva di rappresentarli. Così, l’iniziativa (nonostante il sostegno della Chiesa) non ebbe un esito positivo.

In seguito, i sindacati – che nella maggioranza dei casi sono diretti da persone con la testa sulle spalle – hanno mantenuto il punto della chiusura solamente in occasione delle più importanti festività civili, spesso ricorrendo alla proclamazione di scioperi ‘’di principio’’, ma consapevolmente virtuali. Fino a quando non è arrivato Giggino Di Maio a discettare sulla possibile chiusura dei negozi ope legis. Con la stabilità di una canna (non) pensante, o’ ministro ha cambiato posizione nel giro di poche ore: la norma non varrà per le città turistiche e d’arte e comunque un 25% degli esercizi resterà aperto sulla base di turnazioni prestabilite.

Restano però – ritte come obelischi di pietra – le perplessità. In che mondo viviamo? Non passa giorno senza che non si lamentino la crisi dei consumi e il permanere di uno zoccolo duro della disoccupazione. Sembra ovvio ritenere, dunque, che se un negozio o un supermarket decidono di rimanere aperti anche la domenica, agiscano in nome di una precisa convenienza: che i ricavi di quella giornata siano superiori ai costi. Fino a prova contraria, poi, i rapporti di lavoro sono regolati da contratti i quali stabiliscono l’orario di lavoro settimanale, le regole e le maggiorazioni per il lavoro straordinario, giornaliero e festivo, i criteri del riposo compensativo.

Nelle grandi strutture del commercio è più agevole per i sindacati svolgere le loro funzioni di tutela delle condizioni di lavoro; così, dalla liberalizzazione degli orari è derivato anche un maggior numero di occupati (magari grazie a qualche forma benemerita di flessibilità), allo scopo di coprire fasce orarie prolungate, attraverso un arco più ampio di turnazioni.

Del resto, perché prendersela con i negozi? In Italia e in tutto il mondo ci sono milioni di lavoratori che non la domenica, perché lavorano negli alberghi e nei ristoranti, sono adibiti a cicli continui di lavorazione, sovraintendono alla sicurezza delle comunità, fanno camminare i mezzi di trasporto pubblici, lavorano negli ospedali e persino nell’industria dello spettacolo e del turismo.

Certo il riposo settimanale, al pari delle ferie, è un diritto inalienabile. Ma è possibile organizzarne il godimento senza creare problemi alla produzione. La legge n.66 del 2003 dispone che il riposo di ventiquattro ore consecutive può essere fissato in un giorno diverso dalla domenica e può essere attuato mediante turni per il personale interessato a modelli tecnico-organizzativi di turnazione particolare ovvero addetto alle attività aventi le caratteristiche indicate dalla legge stessa.

È poi singolare l’atteggiamento dei media che si sono infilati nel dibattito. Pare divenuto disdicevole che una famiglia decida di trascorrere la domenica a spasso in un mega store (odiato emblema del capitalismo), anziché starsene a casa davanti alla tv ad assistere alle interviste di Alessandro Di Battista che racconta le sue esperienze guatemalteche e magari spiega che è necessario nazionalizzare i supermarket.

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