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Reddito Minimo

Perché centro e periferia votano in maniera opposta? L’analisi di Cazzola

Le periferie hanno votato nel 2018 per il M5S, quest’anno per la Lega. Perché? Dibattito su Start Magazine

Ho apprezzato l’articolo di Francesco Seghezzi, che Start ha ripreso da Adapt. Con l’essenzialità che lo contraddistingue, questo giovane studioso ritorna su di un tormentone che da tempo angoscia le formazioni della sinistra le quali avvertono come una colpa l’ottenere più voti nelle grandi città che nelle piccole, nei centri storici che nelle periferie urbane.

Allegato all’articolo vi è una rudimentale tabellina che riporta i consensi della Lega e del Pd in alcune regioni e nei relativi capoluoghi o città importanti. Nelle regioni considerate il Pd ha meno voti della Lega tranne che in Toscana, mentre è in testa in tutte le città elencate, ad eccezione di Verona.

Secondo Seghezzi – ma la sua idea è ampiamente condivisa – ‘’qualcosa sembra chiaro fin da subito, qualcosa alla quale siamo ormai abituati da qualche anno in Italia e non solo: la frattura tra centro e periferia. Ma non un centro e periferia inteso semplicemente come distanza geografica tra spazi all’interno di singole o confinanti amministrazioni. C’è qualcosa di più complesso dietro – spiega Seghezzi – che si collega direttamente a catene globali del valore che sempre più muovono i sistemi economici (e quindi sociali) dei singoli territori. I territori che si collocano ai livelli più alti di queste catene con buone performance di innovazione, investimento tecnologico e soprattutto capacità di attrazione di capitale umano, finanche miglior integrazione beneficiano di molti vantaggi’’.

Da questo angolo di visuale il tema delle ‘’città attraenti’’ come protagoniste dello sviluppo, è affrontato anche nel saggio di Enrico Moretti, ‘’La nuova geografia del lavoro’’ (Mondadori). Scrive, infatti, Moretti che ‘’l’economia di una città sana si basa su di un saldo equilibrio tra l’offerta e la domanda di lavoro: le imprese innovative (la domanda) decidono di stabilirsi là perché sanno che troveranno lavoratori con le necessarie competenze, e i lavoratori qualificati (l’offerta) decidono di stabilirsi là perché sanno che troveranno gli impieghi desiderati. L’economia di una città in crisi – prosegue l’autore – gira esattamente al contrario’’. Negli Usa, sostiene Moretti, si è affermata ‘’l’idea che le risorse pubbliche per il rilancio dello sviluppo dovessero prevalentemente concentrarsi sul miglioramento delle attrattive locali, in modo da richiamare i creativi’’.

Anche in Italia vi sono città che hanno saputo inventarsi un nuovo e diverso dna. Quando io avevo l’età di Seghezzi, Milano erano una città manifatturiera. Ricordo che una volta a Sesto San Giovanni, da buon emiliano, chiesi ad una signora – che passava sul marciapiede con la borsa della spesa – dove fosse la Camera del Lavoro; lei mi guardò come se avesse visto un marziano e mi rispose: ‘’Vorrà dire la Fiom?’’.

Oggi Milano si appresta a sostituire la Londra della Brexit come città degli affari, della finanza, del terziario avanzato. Il problema delle periferie – sia pure sotto differenti aspetti e condizioni – c’è sempre stato. Nelle capitali dello sviluppo industriale esistevano i c.d. quartieri-dormitorio, dove gli operai rincasavano la sera e se ne andavano la mattina presto. In quegli stessi anni chi raggiungeva Roma in treno, costeggiava un tratto della via Salaria dove sorgevano delle vere e proprie baraccopoli prive di servizi, fognature, acqua corrente, elettricità (a meno che non fossero collegamenti abusivi) e quant’altro.

A cambiare questa situazione furono le prime giunte di sinistra e un grande sindaco come Luigi Petroselli, morto sul posto di lavoro dopo aver impresso una svolta alla città. Certo, allora le periferie votavano a sinistra. Negli anni ’60 mi capitò di fare il presidente di seggio, nella mia città Bologna, sia in un’elezione amministrativa che in una politica. In ambedue i casi la sezione elettorale si trovava in quartieri periferici. Ricordo che il Pci prese più voti della somma di quelli di tutti gli altri partiti. Allora, però, c’erano delle proposte, dei programmi e gli elettori erano in grado di verificarne l’attuazione.

Poi, magari, le ideologie erano più solide di adesso (ammesso che ce ne siano ancora) e le sezioni di partito presidiavano il territorio. Ora non solo i partiti si sono suicidati, ma la sinistra soffre per lo ‘’sturbo’’ di essere forte nelle zone ZTL e di aver perso il controllo di quelle periferie da cui venivano grandi quantità di voti.

Le periferie hanno votato nel 2018 per il M5S, quest’anno per la Lega. Per consolarsi è opportuno leggere che cosa è previsto, di specifico (facciamo pur salvo il reddito di cittadinanza), per le periferie urbane nel contratto del governo del cambiamento. Nulla. A meno che non siano temi da ‘”periferia’’ lo sgombero delle occupazioni abusive e lo smantellamento dei campi Rom.

Si tratta di problemi seri che sarebbe sbagliato banalizzare, magari per fare – se capitassero sotto casa nostra – la figura dei vip di Capalbio quando dovettero misurarsi con l’assegnazione dei migranti. Ma non è facile riaprire un discorso interrotto con chi è convinto che il bando dei Rom (anche se fossero cittadini italiani) sia necessario per migliorare la propria condizione di vita.

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