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Pensioni

Pensioni, ecco tagli veri e promesse mancate

L’analisi di Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, Giovanni Gazzoli, Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali e Antonietta Mundo, già Coordinatore generale statistico-attuariale INPS

Con la nuova indicizzazione, partita lo scorso primo aprile, non si ridurranno solo gli importi degli assegni pensionistici in pagamento, ma si renderà necessario anche restituire (proprio dal mese di giugno) ciò che è stato incassato in più rispetto al nuovo meccanismo di indicizzazione: l’impatto sulle pensioni della nuova legge Conclusa la lunga maratona elettorale, a giugno si concretizzeranno per le pensioni, soprattutto quelle più alte, i “tagli e prelievi” previsti dal governo gialloverde nella Legge di Bilancio 2018: da un lato, l’ennesima riduzione degli adeguamenti delle pensioni all’inflazione e, dall’altro, il “taglio” delle pensioni sopra i 100mila euro lordi (poco più di 55mila euro netti).

Non solo però si ridurranno gli importi delle pensioni in pagamento (la nuova indicizzazione è partita dal primo di aprile scorso, mentre il “taglio” decorrerà dal prossimo giugno) ma, da giugno, i pensionati dovranno anche restituire, sotto forma di trattenute INPS, ciò che hanno incassato in più rispetto alla legge Conte-Di Maio nel primo trimestre, per l’indicizzazione delle pensioni, e nei primi 5 mesi per il taglio delle pensioni alte. Iniziamo con la riduzione degli adeguamenti delle pensioni all’inflazione: un po’ di storia per ricordare il pregresso, soprattutto in area Partito Democratico, PD che ultimamente attacca il Governo su questo punto.

Dopo le mancate rivalutazioni del periodo 1992/1996, giustificate dalla fase di riforma del sistema pensionistico – che, per la prima volta dopo oltre vent’anni di sconsiderato uso delle pensioni, riformava il sistema in modo equo sugli attivi e sui pensionati – tutto inizia nel 1997, quando il governo Prodi azzera la rivalutazione delle pensioni di importo superiore a 5 volte il trattamento minimo (TM), cioè le pensioni nette da 1.430 euro circa (non proprio pensioni da nababbi, peraltro proprio quelle, non ci stancheremo mai di affermarlo, coperte da contributi); l’azzeramento si protrae fino alla conclusione della legislatura con i governi D’Alema e Amato. Si ritorna alla normalità nel periodo 2001/2006 (governo Berlusconi), ma già nel 2008 la rivalutazione delle pensioni sopra 8 volte il trattamento minimo viene azzerata, ancora con il governo Prodi; rientra il governo Berlusconi e, fino al 2011, i pensionati ricevono la loro regolare rivalutazione sulla base della legge 388/2000.

Le cose poi precipitano con i successivi governi Monti, Letta, Renzi e Gentiloni. In effetti, già dal gennaio 2017 avrebbe dovuto essere riapplicata la legge 388, ma sia Renzi sia Gentiloni ne hanno prorogato il ripristino al gennaio 2019, ragione per la quale l’INPS, sul finire dello scorso anno, ha provveduto a disporre il pagamento delle rendite 2019 secondo la legge 388.

 

 

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