Finalmente, dopo tanti “rigetti” da parte delle Corti dei Conti regionali adite dai nostri associati pensionati (Venezia, Trieste, Bolzano, Brescia, Roma, ecc.), la Corte dei Conti Sezione giurisdizionale per la Regione Toscana ha pronunciato la Ordinanza n. 33/2024, a firma Dott.ssa Khelena Nikifarava, in qualità di Giudice unico delle pensioni, in cui, a seguito del ricorso di un Preside in pensione che lamentava i ripetuti tagli alla rivalutazione delle pensioni in godimento di maggiore importo, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art.1, c. 309, della legge 29/12/2022, n.197 (bilancio di previsione 2023), nonché dell’art. 69, c.1, della legge 23/12/2000, n. 388 (legge finanziaria 2001), con riferimento principalmente agli artt. della Costituzione vigente nn. 1, 3, 23, 36, primo comma, e 38, secondo comma, e ordina la immediata trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale per le decisioni di merito e competenza. Da un attento esame di questa ordinanza non si può non riconoscere al suo estensore una grande competenza, impegno, serietà, approfondimento, onestà, terzietà, documentazione, coerenza: onore al merito! Ci auguriamo che altre Corti dei Conti condividano (come ha già fatto la Campania) la stessa posizione. E così, dopo più di 20 anni di tagli parziali o totali alla perequazione delle pensioni, ed in mancanza di censure chiare e severe della Corte Costituzionale, quelle medio alte nel tempo hanno perso almeno il 30% del potere d’acquisto ma di più hanno perso le pensioni che hanno dovuto subire anche l’esproprio proletario di sovietica memoria del “contributo di solidarietà”.
L’Ordinanza anzidetta evidenzia appunto contraddizioni e distonie rispetto al dettato costituzionale, vecchie e nuove, in cui è incorso il legislatore in materia di indicizzazione delle pensioni, tra cui:
- il contrasto tra la manovra 2023 (L. 197/2022), di tipo espansivo con impiego di risorse in deficit, tali da giustificare la sospensione delle regole del Patto di Stabilità UE, e “l’introduzione delle misure volte a limitare l’adeguamento dei trattamenti pensionistici all’aumento del costo della vita, destinate a penalizzare proprio la categoria più debole – in ragione dell’età – di fronte ai rischi specifici del virus, gravata dal conseguente aumento delle spese per l’attività di prevenzione e cura”;
- nel 2023 (con svalutazione previsionale al +7,3% e definitiva al + 8,1%) si è ritornati in materia di perequazione delle pensioni ai più penalizzanti ed ingiusti criteri introdotti dal Governo Letta con legge 147/2013, secondo cui la rivalutazione avveniva, ed avviene, secondo una unica percentuale, decrescente rispetto al valore complessivo dell’assegno e sull’intera misura di una singola pensione, senza alcuna fascia di rivalutazione piena e vera almeno su una quota parte dell’assegno pensionistico stesso, dopo un solo anno (2022, con svalutazione previsionale al +1,7% e definitiva al+ 1,9%) di ritorno al sistema a scaglioni (con la legge di bilancio 234/2021 del Governo Draghi, sulla falsariga della legge 388/2000) che prevedeva una specifica rivalutazione rispetto ai diversi importi di una stessa pensione, cioè +100% indice Istat per gli importi fino a 4 volte il minimo INPS; + 90% per gli importi tra 4 e 5 volte il minimo e + 75% per i restanti importi oltre le 5 volte il minimo anzidetto. Criterio questo che garantiva un recupero complessivo, rispetto all’inflazione accertata, per le pensioni oltre 10 volte il minimo, dell’80% o poco più, mentre per le pensioni di pari importo la rivalutazione si ferma nel 2023 al 32% e nel 2024 (L.213/2023) addirittura al 22%. C’è francamente da chiedersi se il legislatore delle leggi di bilancio 2023 e 2024 (Governo Meloni) pensasse più a ri-tassare le pensioni medio-alte in godimento, piuttosto che difenderne il valore effettivo dagli insulti inflazionistici;
- ciò premesso, l’Ordinanza “si pone un dubbio della non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art.1, c.309, della legge n.197/2022 in relazione all’art. 1, primo comma, all’art. 36, primo comma, e all’art. 38, secondo comma, della Costituzione, in quanto il fondamento lavoristico della Repubblica (art. 1, primo comma, Cost.), appare in contrasto con le misure che riducono in modo particolarmente incisivo la proporzionalità e l’adeguatezza della retribuzione, nello specifico nella forma di retribuzione differita rappresentata dal trattamento pensionistico previdenziale (art.36, primo comma, e 38, secondo comma, Cost.), mentre lo stesso provvedimento destina stanziamenti particolarmente rilevanti – in parte finanziati in deficit- a finalità diverse e di minore pregnanza costituzionale, in contrasto anche con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost.”(ad esempio: super-indicizzazione al 120-150% delle pensioni minime in chiara prospettiva assistenziale);
- d’altra parte la millantata giustificazione del raffreddamento delle indicizzazioni per contenere le dinamiche inflazionistiche è semplicemente ridicola perché l’inflazione attesa nel 2022-2023 aveva origini extra nazionali: tensioni geopolitiche, crisi energetica, ripresa economica dopo il periodo pandemico di depressione;
- e tuttavia, nonostante la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, secondo cui la ”proporzionalità ed adeguatezza (retribuzionipensioni) non devono sussistere solo al momento del collocamento a riposo, ma vanno costantemente assicurate anche nel prosieguo, in relazione ai mutamenti del potere d’acquisto della moneta”, e che “per scongiurare il verificarsi di un non sopportabile scostamento tra l’andamento delle pensioni e delle retribuzioni, il legislatore non può eludere il limite della ragionevolezza”, specie dal 2008 ad oggi:
- a) le ripetute de-indicizzazioni hanno prodotto danni strutturali, permanenti e crescenti, alle pensioni medio-alte, infatti l’effetto si cumula nel tempo, visto che anche le indicizzazioni future saranno applicate ad importi ridotti, specie quando i tagli sono insistiti, quasi abitualmente e con accanimento, cosa che la Consulta aveva ammonito ripetutamente Governo e Parlamento dal non continuare a fare;
- b) i titolari di pensioni medio-alte, che hanno avuto di diritto liquidata una pensione di tipo retributivo, si trovano di fatto a godere oggi di una pensione, svilita nella misura, di tipo contributivo, attraverso il subdolo meccanismo della ridotta indicizzazione, senza modifiche ordinamentali e di calcolo della pensione acquisita, decretata, consolidata;
- c) l’intervento di de-indicizzazione è stato così grossolano e sprovveduto, che è stato necessario ricorrere ad una norma di salvaguardia che interviene quando, calcolando la perequazione con la percentuale di propria spettanza (sulla base del valore complessivo della pensione personale), il risultato ottenuto è inferiore al limite della fascia precedente, anch’esso perequato, importo che viene comunque assicurato (quantomeno nel biennio 2023-2024);
- d) e ci sono addirittura orientamenti politici che vorrebbero modificare l’art.38 della Costituzione, che fa riferimento all’adeguamento necessario 5 delle pensioni, cosicché la loro erogazione e misura sarebbe condizionata solo dalle esigenze del bilancio dello Stato;
- ed invece, secondo l’Ordinanza in esame, “le disposizioni legislative che prevedono la rivalutazione in misura decrescente all’ammontare dell’importo del trattamento pensionistico, si espongono ai dubbi di legittimità costituzionale sotto il profilo della progressiva assimilazione di trattamenti pensionistici di carattere previdenziale – quindi parametrati sulla qualità e quantità (art.36, primo comma, Cost.) del lavoro svolto durante la vita attiva del lavoratore – alle prestazioni di carattere assistenziale, parametrati, invece, esclusivamente o prevalentemente, allo stato di bisogno”. Inoltre, “la penalizzazione dei titolari di trattamenti pensionistici più elevati lede, infatti, non solo l’aspettativa economica (comunque di per sé già tutelata a livello costituzionale), ma anche la stessa dignità del lavoratore in quiescenza, in quanto in tale prospettiva la pensione più alta non risulta considerata dal legislatore come il meritato riconoscimento per il maggiore impegno e capacità dimostrati durante la vita economicamente attiva, ma alla stregua di un mero privilegio, sacrificabile anche in un’asserita ottica dell’equità intergenerazionale”.
Su queste argomentazioni, su queste problematiche, FEDER.S.P.eV., CONFEDIR, APS-LEONIDA, scrivono, sollecitano, promuovono ricorsi da anni, e continueranno a farlo, nella certezza che non ci troviamo di fronte solo a “non manifestamente infondate” questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni che attengono alla mancata indicizzazione delle pensioni medio-alte, ma a veri e propri sfregi a principi e valori sacralizzati nella Costituzione vigente della Repubblica.
In particolare, al di là della fine qualificazione giuridica, la mancata indicizzazione delle pensioni medio-alte in godimento si configura come una tassazione impropria ed aggiuntiva, una vera “patrimoniale”, senza però avere i requisiti richiesti al prelievo tributario legittimo (art.53 della Cost.), vale a dire la generalità e progressività del prelievo e la proporzionalità dello stesso: si distribuiscono infatti contemporaneamente penalizzazioni o favori, vale la legge del tutto o del nulla.
Ma la categoria fiscale dei dirigenti, funzionari quadri e alte professionalità alle quali apparteniamo e rappresentiamo, che si colloca mediamente oltre 55.000 € lordi/anno di reddito, per intenderci oltre 8 volte il minimo INPS, gratificata (si fa per dire) dal 37 al 22 % della rivalutazione riconosciuta sulla base della svalutazione accertata, rappresenta quasi il 5% di tutti i contribuenti italiani e sostiene già quasi il 40% del gettito IRPEF totale del Paese (rapporto 1: 8). Qualche cifra esplicativa: secondo calcoli effettuati dal nostro Centro studi e di altre Confederazioni continuare a tagliare la rivalutazione delle pensioni sulla base di quanto già verificatosi nel 2023 e 2024 significherebbe per il Governo recuperare per il 2025 un miliardo di euro che si aggiungerebbe agli oltre dieci miliardi degli ultimi due anni.
Una pensione che nel 2022 ammontava a poco più di 1.700 euro netti (non certo una pensione d’oro) solo nel triennio 2023-2025 subirà un taglio di circa 1000 euro netti e una pensione di € 2.600 netti subirà una perdita di oltre 4.500 euro, tagli che proiettati sull’aspettativa di vita saranno di oltre 8.700 euro netti per la pensione di € 1.700 netti e di circa 44.500 per la pensione di 2.600 euro netti.
Nel decennio 2023-2032 questo furto ammonterebbe a oltre 61 miliardi di euro netti. Si tratta di un indegno furto di reddito di reale contribuzione. Cosa ancora possono chiederci? Prendiamo atto che oggi quasi tutte le forze politiche affermano che il ceto medio “è stato ingiustamente penalizzato”, ma chi riconosce la penalizzazione è lo stesso che l’ha inferta!
Confidiamo, quindi, nell’intervento della Corte Costituzionale ma anche in una legge di bilancio giusta ed equa che tuteli le persone anziane ed il potere d’acquisto delle loro pensioni.